La Stampa 20.2.16
L’Europa non è mai stata così divisa
di Stefano Stefanini
Un
respiro di sollievo per l’accordo su Brexit. Il 2016 dell’Europa resta
in salita ma almeno i leader non si sono bloccati alla partenza. Non si
sono intestarditi sulla lana caprina di consentire o no al Regno Unito
di non essere vincolato alla clausola della «unione sempre più stretta»
(ever closer union).
Un annoiato, e interessato, Alexis Tsipras
aveva osservato che dovrebbe piuttosto pensare al rischio di
disintegrazione sotto le spallate dei rifugiati.
L’Unione non è
mai stata così divisa. Ieri si è parlato dell’accordo con la Gran
Bretagna e d’immigrazione; ma nel retroscena ci sono anche le tensioni
sulle banche, la Russia e il braccio di ferro sull’austerità.
L’Europa
è abituata alle lunghe notti. È abituata alla limatura del consenso.
L’accordo arriva tardi o all’alba, quando nei leader si prosciuga anche
l’adrenalina. Se non c’è accordo, si rinvia al vertice successivo.
Questo vertice non faceva eccezione ma qualcosa è diverso. I due nodi
sul tavolo, uscita del Regno Unito e immigrazione, cambiano comunque
profondamente l’Europa.
L’Europa del 31 dicembre 2016 sarà
un’Europa diversa da quella del 1° gennaio. I leader possono pilotare il
cambiamento; non possono né ignorarlo né rinviarlo al mittente. Alcuni
(e Matteo Renzi è fra questi) lo capiscono; alcuni lo strumentalizzano;
altri si rifugiano in fughe nel passato.
Se la Gran Bretagna
rimarrà nell’Unione, sarà definitivamente un’Europa a due, o più,
velocità. L’allentamento di alcuni vincoli sarà contagioso per molti
anche se non nella forma «prendere o lasciare» che Londra è stata capace
d’imporre. Un consistente gruppo di paesi, identificabili con
l’eurozona, potrà spingersi sulla strada del «più Europa». È necessario
per alcuni passi finora fatti a metà, come l’unione bancaria. Dovranno
stare attenti a non forzare la mano a elettorati e opinioni pubbliche
che non vogliono «troppa Europa». I britannici non sono soli nel
dubitare dell’Ue.
Con Brexit avremmo un’altra Europa. Parliamoci
chiaro. Senza l’Ue, il Regno Unito è un’isola nell’Atlantico. Senza
Londra, l’Europa è una penisola euroasiatica fra Atlantico e
Mediterraneo. La posta geopolitica è enorme. Ieri i leader europei,
Cameron compreso, hanno fatto la loro parte. Adesso la parola passa ai
cittadini col referendum. Aspettiamoci anche interventi dall’esterno di
pezzi da novanta, come Obama che visiterà la Gran Bretagna in primavera.
Quanto al mito di un’Ue più coesa dopo Brexit chiedere a Budapest o a
Varsavia. A meno di procedere per eliminazione e scartare altri pezzi
alla ricerca di un nocciolo duro.
Se Brexit rischia di staccare un
pezzo d’Europa, l’immigrazione la sta dilaniando. Gli europei devono
rassegnarsi a conviverci. Quand’anche il cessate il fuoco tenesse e il
negoziato decollasse, la Siria continuerà a produrre rifugiati prima di
rientri. Non c’è solo la Siria, ci sono Iraq, Afghanistan, Corno
d’Africa, Libia spalancata sull’Africa subsahariana; c’è a Est
un’Ucraina instabile che sta rischiando l’implosione politica. Migranti e
rifugiati continueranno. Era troppo attendersi una soluzione dal
vertice di ieri. Ma s’intuisce un senso di direzione.
All’Ue, non
resta che la strada già percorsa da paesi che sono da sempre oggetto di
pressione immigratoria, come gli Stati Uniti. Gli americani, lasciamo
perdere Trump, sanno benissimo che non si può fermare né arginare; si
può frenare e filtrare; si può gestire. A che altro servono i reticolati
fra Texas e Messico? Gli illegali entrano lo stesso (i consolati
messicani negli Usa li registrano col beneplacito americano – «almeno
c’è una traccia»).
La parola d’ordine di questo Consiglio europeo è
«non più entrate libere» (no waving through). L’Ue vuole «controllare
le frontiere esterne per non risollevarle all’interno». Confusamente,
con misure nazionali controverse e di dubbia legalità, come la soglia
agli ingressi imposta dall’Austria, l’Europa pone barriere e filtri che
trattengano la piena e rassicurino le opinioni pubbliche. Le difficoltà
sono enormi e ben maggiori di quelle fronteggiate dagli Stati Uniti: una
sterminata frontiera marittima, come l’Italia sa bene da anni, e una
geografia complicata che minaccia di fare dei Balcani terra di
stazionamento; la limitata capacità di assorbimento di un continente già
saturo e con un mercato del lavoro asfittico; il gran numero di
rifugiati politici cha ha diritto all’asilo; l’impossibilità di
respingimenti di chi fugge da Stati falliti, dittature spietate, regimi
barbari.
L’Europa non ha tuttavia altra scelta che arginare e
canalizzare, filtrando gli ingressi e gestendo la pressione. A questo
servono gli hot spots, l’operazione marittima Nato e a collaborazione
con paesi terzi, come Turchia, Giordania, Libano e area balcanica. La
solidarietà rimane; il diritto d’asilo pure. L’Ue procederà per
approssimazioni successive, farà anche errori, ma il controllo esterno è
l’unico modo per non tornare alle frontiere e agli egoismi nazionali.