La Stampa 19.2.15
Dio non gioca a dadi, però...
In
un’America ferita e inquieta, la teoria della complessità cerca di
riconoscere le regole che governano il caso, per orientarsi nel caos
di Gianni Riotta
Provate
ad allineare con i soldatini di piombo di una volta i contendenti nella
guerra civile in Siria, che ha fatto 250.000 morti e milioni di
profughi, destabilizzato il Medio Oriente e l’Europa, messo Usa contro
Russia come ai tempi della Guerra fredda facendo dire a papa Francesco:
«È la Terza guerra mondiale a pezzetti». Da una parte l’esercito di
Assad, dall’altra i ribelli. Poi schierate con Damasco Putin, l’Iran
sciita e gli hezbollah libanesi, con i ribelli gli Stati Uniti e la
«coalizione», dagli inglesi ai sauditi. Qui siamo già a tre conflitti,
Assad/ribelli, Usa/Russia, sciiti/sunniti, cui vanno aggiunti l’Isis,
contro cui agisce una diversa coalizione, Italia inclusa, e ancora
Turchia, curdi, al Qaeda…
Addio Laplace
La tragedia in Siria
è un esempio perfetto di quella che gli scienziati chiamano «teoria
della complessità», astrusa e affascinante disciplina che tratta con la
stessa disinvoltura matematica e economia, biologia e linguistica,
epidemiologia e informatica. La vecchia scienza credeva nell’idea di
Laplace, fissata nel 1814 e così descritta dalla professoressa Melanie
Mitchell nel saggio Complexity: A Guided Tour: «Date le leggi di Newton e
la corrente posizione e velocità di ogni particella dell’universo, è
possibile, in linea di principio, prevedere ogni evento, per
l’eternità».
L’ambiziosa speranza del marchese Laplace è datata
1814, giusto un anno prima che il Congresso di Vienna imponesse
all’Europa regimi che, come le particelle dell’universo, dovevano
restare fissati per sempre. La rivoluzione del 1848 li travolge in
politica, mentre in fisica tocca aspettare il 1927, il principio di
Heisenberg e la fisica dei quanti, per riconoscere che nell’universo,
come nella storia, soffia forte il random, il caso, e addio sicurezza
ferrea delle previsioni.
Einstein era certo, «Dio non gioca ai
dadi»; Dio sembra invece divertirsi molto con il caso e la teoria della
complessità prova adesso a riconoscere con quali regole, intrecciando i
dati della biologia, della fisica, i calcoli matematici, i risultati di
scienze umane e sociali, l’economia, per orientarsi nel caos, o almeno
sapere quando non abbiamo nessuna rotta credibile.
Il blog Slate
lancia in questi giorni A Crude Look at Whole: The Science of Complex
System in Business, Life, and Society, ultimo libro dello studioso John
H. Miller, confrontando la complessità con la riottosa America della
campagna elettorale 2016. Miller e la Mitchell presentano esempi così
disparati da lasciare, dapprima, di stucco il lettore. Cosa unirà mai un
formicaio, le Borse mondiali, il funzionamento del nostro sistema
immunitario, il moto dell’universo, i neuroni del cervello, l’evoluzione
della vita sulla Terra, il web?
Previsioni ardue
Un tempo,
sui libri di scuola, ogni disciplina era fissata con rigore, «la
matematica non è un’opinione» dicevano severi i professori, ma con la
complessità nulla è così lineare, nella scienza, e in politica ci sono
strappi, passaggi random che rendono le previsioni ardue, per la Casa
Bianca come per la Borsa. La domanda della Mitchell ci strega in questo
confuso XXI secolo: «Perché mai tutti questi sistemi della natura che
chiamiamo complessi - cervelli, colonie di insetti, il sistema
immunitario, le cellule, l’economia globale, l’evoluzione biologica -
producono comportamenti e si adattano in modo tanto complesso, a partire
da poche regole comuni?».
E se queste «regole comuni» ai grandi
sistemi esistono, saremo un giorno in grado di analizzarle e governarle?
Potremo comprendere come il caso, un effimero cambiamento cellulare,
possa produrre risultati macroscopici nelle specie animali o come una
guerra locale a Damasco basti a infiammare il pianeta? Potremo
programmare un computer «totale», capace di pensare?
Molti
scienziati son certi di sì, progettano macchine pronte a lavorare per
noi o, come aveva previsto Italo Calvino nel 1967, perfino a «scrivere
romanzi». Però, con contraddizione tipica della complessità, il mito
dell’Intelligenza artificiale è prima denunciato dal fisico Hawking come
«l’ultima cosa che l’uomo farà», perché le macchine si ribelleranno al
creatore sterminando l’Homo sapiens, poi, con meno spirito di
fantascienza, deprecato dai suoi pionieri che temono un’ondata di
disoccupazione. La scorsa settimana è stata fatta circolare dal Future
of Life Institute, in Massachusetts, una lettera aperta con oltre 10.000
firme di scienziati: denunciano ai governi che le future macchine
intelligenti lasceranno milioni di persone senza lavoro, impiegati,
tecnici, operai, producendo povertà di massa e gravissima instabilità
sociale (http://goo.gl/Bcbkop).
Da generazioni l’America non era
inquieta e ferita come in questa stagione. Straordinario dunque che si
appassioni giusto alla teoria della complessità, che ci mette in guardia
dalla facilità con cui insignificanti fenomeni, a prima vista senza
importanza alcuna, in un nonnulla distruggano comunità che si
consideravano formidabili.