La Stampa 18.2.16
La vita e la morte non aspettano chi fa le leggi
di Vladimiro Zagrebelsky
Vi
sono momenti in cui sembra che tutto concorra ad aggravare problemi
latenti, che si spera non vengano al pettine e non si cumulino divenendo
ineludibili tutti insieme. Forse questo è uno di quei momenti.
Le
istituzioni massime della democrazia, quelle parlamentari, sono
investite dalla richiesta di dimostrarsi adeguate allo scopo che le
giustifica, proprio mentre l’inadeguatezza sembra massima. Il pensiero
va spontaneamente al tema dei diritti civili delle coppie omosessuali,
ove lo spettacolo offerto dal Senato è rattristante, tanto il disdoro si
aggiunge alla paralisi. Ma non basta, poiché altra questione persino
più grave sopraggiunge inevitabile. E arriva fisicamente, con la
presentazione in Parlamento di una donna che ha deciso di morire e
chiede una legge che disciplini finalmente anche in Italia le modalità
della fine della vita in circostanze che richiedono attento rispetto
dell’autodeterminazione e della dignità delle persone. La donna sarà là.
Difficile far finta di non vederla e sentirla.
E’ certo ancora
nella memoria la vicenda di Eluana Englaro, cui, dopo 17 anni di coma
irreversibile, il padre chiedeva di interrompere il mantenimento in vita
artificiale. Dopo una lunga procedura giudiziaria, l’interruzione venne
autorizzata dalla Corte di Cassazione. Nelle stesse ore in cui Eluana
moriva, il Parlamento si esibì in uno scontro polemico a tratti
incompatibile con la dignità che è giusto richiedere a un tale organo
dello Stato ed anche con il rispetto dovuto alle persone. Per fortuna un
nobile richiamo della senatrice Finocchiaro intervenne a riportare un
clima consono alla gravità del tema e del momento. Il governo Berlusconi
pensò addirittura a un decreto-legge che avrebbe obbligato i medici a
insistere nel trattamento. Fu il presidente Napolitano a impedire lo
scempio, umano e costituzionale.
Questo ricordo della vicenda
serve a introdurre la menzione di ciò che fece seguito alla sentenza
della Corte di Cassazione. Avvenne un fatto istituzionale inusitato,
come il conflitto sollevato sia dalla Camera sia dal Senato contro la
magistratura, che avrebbe usurpato il potere legislativo che spetta al
Parlamento. Diceva il Parlamento: la legge la facciamo noi, non la
magistratura! La Corte Costituzionale dichiarò inammissibili i ricorsi,
poiché la Cassazione aveva deciso il caso specifico sulla base del
diritto, anche non potendo richiamare una legge specifica. A differenza
del Parlamento, i giudici hanno l’obbligo di decidere.
Il
Parlamento rivendicò il suo diritto di formare le leggi. Era il 2009,
sette anni orsono. La legge non c’è ancora e solo da poco si è saputo
che un progetto starebbe per essere messo in discussione. Ma intanto la
vita e la morte non si sono fermate in attesa del legislatore.
Sarà
la presenza fisica del problema, clamorosa e provocatoria, capace di
richiamare il Parlamento ad un impegno che esso stesso ha preso? Il tema
è straordinariamente complesso. I casi che vanno sotto il titolo di
«fine vita» sono molto diversi l’uno dall’altro. Equilibrio, conoscenze
scientifiche, sensibilità e rispetto per l’autonomia delle persone sono
necessari. Il materiale di studio è ormai ingente e approfondito. Altri
Paesi europei hanno legiferato, come recentemente la Francia. Ed anche
la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata su un caso
specifico.
Come per la vicenda in corso dei diritti civili delle
coppie omosessuali, ciò che è in gioco non è solo la soluzione di un
determinato problema. Ciò che si logora fino allo strappo è ora il
rapporto cittadini-Parlamento, in una democrazia rappresentativa, come
quella disegnata dalla Costituzione.