giovedì 18 febbraio 2016

La Stampa 18.2.16
I sospetti a Palazzo
Mandante estero per un nuovo governo
Trattative o spallate, quei modi così diversi di Mario e Matteo di considerare l’Europa
di Fabio Martini

Tra le pareti di mogano e i velluti vermigli di Palazzo Madama, sul far della sera è andato in scena il più plateale duello mai visto da molti anni a questa parte tra la «vecchia» Italia europeista e trattativista di Mario Monti (ma anche di Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Draghi) e l’Italia delle «spallate» di Matteo Renzi, l’Italia che febbrilmente percepisce la crisi di una Europa sull’orlo dell’infarto politico, monetario ed istituzionale. E reagisce. Puntando i piedi, reclamando il proprio spazio. Tra un’Italia che ammette di essere fonte di rischio per tutti e un’Italia che lo nega. Tra un’Italia sempre e comunque alleata di Berlino e Bruxelles e un’Italia che non dà più nulla per scontato.
Un affilatissimo duello, quello tra Mario Monti e Matteo Renzi, che è stato preceduto da una sequenza silenziosa ma eloquente: il presidente del Consiglio stava illustrando la posizione dell’Italia rispetto al vertice europeo di oggi e domani e proprio a metà intervento è arrivato in aula l’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che si è seduto a una poltrona di distanza da Mario Monti. Appena Renzi ha concluso il suo intervento, i due Presidenti sono restati a braccia conserte, neppure un timido battimani. Subito dopo il presidente del Senato Pietro Grasso ha salutato una scuola presente in aula, parole che Napolitano e Monti hanno mostrato di gradire di più: hanno applaudito tutti e due.
Anche se oggi i rapporti tra i due non sono più quelli di una volta, Giorgio Napolitano e Mario Monti sono stati i protagonisti di una delle operazioni politiche più controverse degli ultimi anni: il «dimissionamento» forzato di Silvio Berlusconi nel novembre del 2011. In quella occasione in tanti ipotizzarono un «concorso» internazionale (da Obama alla Merkel) nella rimozione della «mina» Berlusconi, sta di fatto che ieri sera, quando si era concluso lo scontro in aula tra Renzi e Monti, un senatore renziano ha sussurrato: «Se il professor Monti ha mandanti internazionali per aprire la strada a qualcun altro, stavolta gli andrà male». A palazzo Chigi qualche sospetto comincia a serpeggiare su possibili movimenti ostili dalle parti di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington, un sospetto avvalorato degli editoriali decisamente critici con Renzi, usciti negli ultimi venti giorni su testate come Financial Times, Frankfurter Allgemeine, New York Times.
E d’altra parte nel duello di ieri al Senato sono affiorate due visioni opposte dell’Italia in Europa. L’Italia di Renzi è quella che preannuncia con largo anticipo un possibile veto al Consiglio europeo e lo fa in «Eurovisione». Ad un certo punto, intervenendo in Parlamento, Matteo Renzi ha fatto cenno alla possibilità che l’Italia possa porre il veto al tentativo di mettere un tetto alla presenza di titoli di Stato nel portafoglio delle banche europee, con allusione a Deutsche Bank, chiamata in causa dal capo del governo, quando ha detto che «nella pancia di alcune banche europee c’è un eccessivo numeri di derivati e titoli tossici». Attacco esplicito, pesante, anche sprezzante del pericolo.
L’altra Italia, quella della trattativa, nel passato ha usato altri metodi. Opposti. Esemplare il caso del Consiglio europeo del giugno 2012, dove si sommarono trattative felpate e un veto calato al momento decisivo. Erano le settimane nelle quali il sistema dell’euro era sull’orlo della rottura, la cura da cavallo imposta dal governo Monti non riusciva a debellare lo spread e in quella occasione il presidente del Consiglio, per forzare le resistenze della Merkel, preparò riservatamente una rete di alleanze, in particolare con Obama, col neo-presidente francese François Hollande e col primo ministro spagnolo Rajoy. E così, durante un Consiglio durato ininterrottamente 15 ore, prima la Spagna e poi l’Italia minacciarono di porre il veto e alla fine, con la Germania sulla difensiva, si posero le premesse politiche per la successiva dichiarazione di Mario Draghi: il famoso «whatever it takes», che pose fine all’assedio a Roma e Madrid sui mercati finanziari.