mercoledì 17 febbraio 2016

La Stampa 17.2.16
Nelle scansioni cerebrali dei monaci buddhisti
la verità sulla «grande compassione»
di Maurilio Orbecchi

Bloom sottolinea i limiti dell’empatia emozionale, che tende ad essere tanto più intensa quanto maggiore è la vicinanza genetica e sociale, privilegiando così le persone che conosciamo, coloro che ci assomigliano. L’empatia emozionale tende a essere più forte per i membri della nostra società rispetto agli stranieri e verso le singole persone rispetto ai grandi numeri. I motivi psicologici profondi per cui gli attentati terroristici sono vissuti tanto più drammaticamente quanto più colpiscono le persone vicino a noi, secondo questa lettura, non vanno quindi fatti risalire a una carenza di empatia, ma, al contrario, a un suo eccesso.
Senza ipocrisia dobbiamo ammettere che non è negativo che l’empatia sia maggiore con chi ci è più vicino: se rispondessimo con la sofferenza e con il lutto al decesso delle 150 mila persone che muoiono quotidianamente sulla Terra così come soffriamo per la morte di un nostro famigliare, non soltanto non avremmo l’energia per aiutare chi soffre vicino a noi, ma saremmo talmente sovrastati dal dolore che non riusciremmo nemmeno a sopravvivere.
Bloom è consapevole che ogni forma di attenzione nei confronti degli altri è moralmente giusta e che la bontà e l’altruismo sono positivi dal punto di vista psicologico, fisico e sociale. Per questo motivo, mentre denuncia i limiti dell’empatia emozionale, presenta l’empatia cognitiva come un sentimento sociale fondamentale. A questa, però, occorre aggiungere un sentimento emotivo che dia autenticità alla nostra comprensione dell’altro. Il sentimento sociale da insegnare e da sviluppare non è l’empatia emozionale, limitata dai rapporti di prossimità, ma una sorta di compassione non-empatica, una forma distanziata di attenzione e cura nei confronti degli altri.
In altre parole - osserva Bloom - si tratta di quella che il buddhismo chiama la «grande compassione», un amore per gli altri al di là del rapporto di vicinanza, senza eccessiva identificazione empatica. Questo sentimento, nelle scansioni cerebrali studiate da Richard Davidson su alcuni monaci tibetani, appare diverso dalla «compassione sentimentale» di tipo empatico che già gli insegnamenti buddhisti invitavano a evitare, perché produce errori e nuova sofferenza.
Chi teme che lo sviluppo delle neuroscienze porti a un arido scientismo può così verificare, ancora una volta, che la realtà è molto diversa: la scienza contemporanea, infatti, non ha timore di confrontarsi con la millenaria sapienza filosofica, alla ricerca di nuovi modelli teorici più corrispondenti alla realtà.