La Stampa 17.2.16
La tempesta perfetta
di Aleppo
Domenico Quirico
Aleppo
è tra il cielo e l’inferno. Era, ed è, per me che la vivo da cinque
anni, un groviglio, una impervia salita all’eterno, un isterismo di
terrori, di vanità umana, di nefaste ossessioni, di ostinati sconosciuti
eroismi.
Quando vi arrivai la prima volta aveva appena cominciato
a cavar sangue alle sue vittime, a patire la veglia lugubre del Tempo, a
porre tutto in un colore di ombra che è tipico della nostra epoca; ed è
il colore del riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come
sappiamo che viene vissuta. Aleppo è insieme Guernica e Stalingrado,
Sarajevo e Grozny. Fare giornalismo lì, raccontare, per tanti cronisti
che l’hanno scelta e amata quasi come una donna, nelle infinite piaghe,
vuol dire raccogliere pietosamente le sue agonie, diventare eroe per
forza della sua infusa tenacia, rivelatore della sua camera oscura,
acciarino della sua terribile pietra focaia. Lì non puoi toccare le
parole se non gli viene data una forma umana.
Raccontare Aleppo:
piantine, avanzate, ritirate, comunicati, annunci. Non è così che
capirete. Ci vorrebbe il pennello di Dürer, e le sue apocalissi, la
furia lugubre del Greco con i suoi cieli di agonia. In nessun altro
luogo che ho attraversato si soffre di condanna mortale come ad Aleppo e
l’accusa della realtà è unica qui, acuta e tenace. Non perdonano né le
rovine di interi quartieri né le isole intatte; la sensazione è quella
di esser stati colti in flagrante per ogni elemento umano che resta in
noi e di essere in balia di testimonianze implacabili.
La guerra
perfetta come una tempesta, crudele e padrona come se la Natura la
muovesse, non più gli uomini. Il nostro tempo assassino si è dato
appuntamento in quella terra rossiccia, in quel terreno dell’epoca
terziaria da principio del mondo. Senti la presenza delle forze del Male
che scivolano lungo i muri e schiacciano le dita contro le finestre
pronte a stiparsi dentro. Per questo la sua storia, oggi che l’abbiamo
tratta da un ipocrita oblio, è tanto feroce, ribelle e qualche volta
traditrice.
Dio mio! Quanto tempo è passato: 2012, arrivavi in un
mondo in cui le leggi della distruzione e della morte erano appena
entrate in vigore, ancora stentavano a imporsi. Aveva cieli angelici
questa città aggrappata alla pianura con le conchiglie bianche e
giallastre delle sue case, delle chiese e delle moschee, la cittadella
bruciata dal sole, in molti quartieri ancora rigurgitava di folla.
Andate ad Aleppo: andateci con la fantasia, con il cuore, con la rabbia,
ora: scoscesa e come senza abitanti, burrascosa e recondita, terribile
apparizione nella storia e sempre come morta. Costruita con pietre
lunari e ora persa in dirupi lunari e posta dall’altra faccia del mondo
in cui viviamo. Chi le ha offerto una mano, le ha detto: vieni,
sopravvivi?
La vita ti scortica e alla mattina, nel fragore della
artiglieria, ti trovi senza più pelle. E durante la notte ti senti
trascinare verso l’abisso dell’ombra, precipitare nei suoi declivi di
cemento triturato che un tempo erano palazzi e strade, obbligati a
veglie da agonizzanti. Nessun altro luogo ti dà una maggiore impressione
di cattività che un giorno ad Aleppo. Con acre energia torna il
pensiero che in quelle vie può abbattersi, da un istante all’altro,
ancora la furia distruttrice della guerra: e più che l’orrore fisico il
cervello sente con sensibilità acuta e palpitante l’offesa enorme di
quell’assurdo.
Sono salito su un alto palazzo per guardarla di
notte: la vita si è raggrinzita, è povera e triste, il piedistallo del
cielo è cupo e si muove nelle angustie che lo stringono. Aleppo si trova
vicino al cielo, è una città che vola: il suo cadavere bianco vi si
riflette, rovesciato e spettrale. Bussi alle porte nella città vecchia
profanata dal fuoco e dal cannone e risuonano vuote; e poi ti accorgi
che, dietro, vi sono ancora uomini che si abbracciano, che sperano, che
non sciupano neppure un attimo che resta loro.
Eserciti,
rivoluzionari, banditi, fanatici, terroristi, essa porta il proprio
mostro dentro di sé, senti la dissezione dell’anima, il rumore della
fatica del tentar di vivere quando cadono le bombe e tutti si perdono
nelle strade supplicando e impetrando.
Quattro anni dopo Aleppo è
uguale a se stessa. Vi si sale per assicurarsi che esista e poi quando
si è arrivati, e ci si vede circondati da panorami di infinita rovina, e
di vita, non si è ancora certi di trovarsi o meno nella realtà. La vita
ad Aleppo ci strappa abilmente e crudelmente sempre qualcosa, ci lascia
nudi con noi stessi e pensiamo che non riusciremo a ritrovare la strada
che cerchiamo, perché in un luogo simile non vi sono più strade. I
vicoli tra le rovine non conducono in nessun posto, se non a barriere di
mattoni e di stracci. Lì dove gli Altri ci attendono. Le strade hanno
inghiottito le strade, le pietre sono solo la prima pietra.
Chi
sono gli abitanti di Aleppo? Devono la vita al loro eroismo di uomini
comuni, sparuto residuo di una moltitudine (erano sei milioni cinque
anni fa!): moltitudine dura, capace di resistere a un assedio sempre
implacabile, di dentro e di fuori, assedianti che diventano a loro volta
assediati nel furioso andare e venire degli eserciti. Perché Aleppo si è
fortificata come un serpente attorcigliato e uno fa scudo all’altro.
Aleppo agonizza in un tempo che sembra infinito. Forse è una colpa non
aver saputo morire?