La Stampa 17.2.16
Letta tradito anche dalla sinistra Pd
Così Renzi conquistò il Palazzo
Una nuova ricostruzione illumina gli eventi del febbraio 2014
Complice la malattia di Bersani, le sue truppe si consegnarono al rottamatore
di Fabio Martini
Quella
mattina, finito di sorbire il suo solito tè, Enrico Letta capì che non
c’era più nulla da fare: Matteo Renzi lo aveva messo all’angolo. Erano
le 8 del 13 febbraio 2014 e al piano nobile di palazzo Chigi il
presidente del Consiglio fece entrare nel suo studio dalle pareti
dorate, i tre ospiti che avevano chiesto di vederlo: il vicesegretario
Lorenzo Guerini, il presidente dei senatori Luigi Zanda e quello dei
deputati, Roberto Speranza. E la presenza di Speranza, capofila della
ancora forte sinistra interna, fece capire al premier che il colpo di
grazia lo avevano inferto proprio loro, gli ex comunisti, a parole
ostili a Renzi ma nei fatti decisivi nel favorire la sua escalation. Ai
tre che gli chiedevano di lasciare il campo senza traumi, Letta rispose
così: «Questa è un’operazione che farà male al Paese». L’incontro fu
gelido, durò quattro minuti e dieci ore più tardi la Direzione del Pd
ritirò la fiducia a Letta e aprì la strada al governo guidato da Matteo
Renzi.
Frammento finale ma significativo di una vicenda che è
passata alla storia come un colpo di mano di Renzi ai danni di Letta.
Curiosamente Renzi non ha mai tentato di togliersi di dosso l’immagine
del pugnalatore: forse perché consapevole che non sarebbe stato ritenuto
credibile dopo il famoso «Enrico stai sereno», pronunciato pochi giorni
prima del fattaccio? Eppure, due anni dopo il cambio della guardia,
l’accumularsi delle testimonianze «postume» e la distanza dagli
avvenimenti consentono una lettura meno manichea di quel passaggio.
Renzi,
come raccontano da tempo i suoi amici, aveva deciso di puntare su
palazzo Chigi ben prima di vincere, nel dicembre 2013, le Primarie del
Pd. E lo aveva fatto, erodendo la base parlamentare del governo. In quei
mesi il sindaco di Firenze intreccia un rapporto personale con uno dei
capofila degli ex comunisti, Matteo Orfini e con l’ex dc Dario
Franceschini, vecchio sodale di Letta. Poi, una volta vinte le Primarie,
Renzi «punta» il core business, quello dei parlamentari in gran parte
vicini a Bersani. Con due messaggi che Renzi fa correre nei pourparler
quotidiani tra gli scranni parlamentari: «I sondaggi sono brutti, se
continuiamo col passo di Letta, alle Europee prendiamo una legnata» E
ancora: «Così non va, serve un governo di legislatura», che è sempre un
bel richiamo per parlamentari di qualsiasi età e ideologia.
I
mass-media non li intercettano, ma i messaggi renziani si infilano nelle
teste dei peones. E Letta? Maestro di manovre «palatine», non si
smuove: «Se vuole il mio posto, Renzi dovrà chiederlo esplicitamente,
per il Capo dello Stato questa è la procedura». Romano Prodi mette sul
chi vive il suo amico Enrico: «Tenta una sortita, non aver paura di
metterti in una controversia». Letta non si muove ma la talpa renziana
scava e - senza che nessuno se ne accorga - arriva fin dentro la
«cittadella rossa», che in quelle settimane non è presidiata dal suo
capo, Pier Luigi Bersani, ancora convalescente. E così il 6 febbraio
davanti alla Direzione Pd accade qualcosa che, riletto ex post, fa
capire tutto. Il segretario del Pd dedica al tema governo poche parole:
«Il Pd lo aiuta, accelerando le riforme». Non una parola di più, ma sono
i colonnelli della sinistra a spalancare il baratro. Stefano Fassina:
«Non può bastare un governo di intrattenimento». Alfredo D’Attorre:
«Serve un governo forte per arrivare al 2016». Gianni Cuperlo: «Reggiamo
senza guardar negli occhi il Paese?». Loro non possono ancora sapere
che Renzi, una volta preso il potere, li farà «neri», ma quella sera il
segretario raccoglierà il decisivo assist. Passano quattro giorni, Renzi
va a cena al Quirinale e può tranquillamente dire a Giorgio Napolitano:
«Tutto il Pd è con me»: gli ex democristiani ma anche gli ex comunisti.