martedì 16 febbraio 2016

La Stampa 16.2.16
La sinistra non capisce Sanders
di Riccardo Barenghi

Uno spettro si aggirava per l’Europa ed era lo spettro del comunismo, scrissero Marx ed Engels nel loro Manifesto del 1848. Quello spettro, riveduto e corretto (non è più comunista, per fortuna) oggi si aggira per gli Stati Uniti ed è un uomo in carne e ossa: si chiama Bernie Sanders ed è un senatore di 75 anni che si è candidato alle Primarie americane per correre verso la Casa Bianca in novembre. Sta sfidando Hillary Clinton e ha un grande successo elettorale, in particolare tra i giovani. Dice cose di sinistra, molto di sinistra, le ha sempre dette nella sua ormai lunga carriera politica. E’ stato sindaco di Burlington nel Vermont per tre volte, nel 2007 è stato eletto al Senato federale dove si è ripresentato nel 2012 ottenendo il 71 per cento dei voti e sconfiggendo così il suo avversario repubblicano.
Da quando è su piazza, Sanders non ha perso occasione per schierarsi contro tutte le guerre moderne, dal Vietnam fino all’Afghanistan e all’Iraq. Combatte per ridurre le diseguaglianze sociali, vuole un salario minimo per i disoccupati (15 dollari l’ora contro i 10,10 dell’ultima proposta dei democratici respinta dal congresso), propone che l’Università sia gratuita, che i lavoratori godano di vacanze e permessi retribuiti. Insomma, sembra di sentir parlare un dirigente della sinistra europea, un vero socialdemocratico, e non solo il leader del Labour party britannico Corbyn ma anche i nostri Bersani, Cuperlo, Vendola, Ferrero, Civati, Cofferati e compagnia cantando.
Peccato che questa compagnia non canti la stessa canzone di Sanders, da quando il senatore americano è sceso in campo ottenendo anche notevoli successi elettorali non si è sentita una voce, tantomeno un coro elevarsi in suo favore. Escluso un tweet del segretario di Rifondazione, la nostra sinistra più o meno radicale non ha colto l’occasione di mobilitarsi, ovvero di utilizzare pro domo sua la battaglia che si sta combattendo Oltreoceano. Strano ma vero. Eppure in altri casi l’occasione era stata colta, basti pensare alla battaglia condotta da Fausto Bertinotti sulle 35 ore prendendo esempio dall’allora primo ministro francese Lionel Jospin (battaglia vinta per garantire un altro anno di vita al governo Prodi nel ’97, ma poi persa insieme allo stesso governo l’anno successivo). Oppure all’esempio di Oskar Lafontaine, leader della Spd tedesca, che fu la bandiera della sinistra italiana per alcuni anni. Fino alla recente infatuazione per Alexis Tsipras, tanto da presentare una lista a suo nome alle ultime elezioni europee (fu un mezzo fallimento, ma comunque ottenne tre deputati).
Stavolta invece niente, non una parola, non un convegno, un’intervista, figuriamoci una manifestazione. Niente, solo silenzio. Che non si spiega neanche con il realismo di chi pensa che tanto Sanders alla fine perderà le primarie contro Hillary e che, se pure per miracolo le vincesse, perderebbe comunque la sfida per la Casa Bianca. La sinistra di cui stiamo parlando ha sempre combattuto anche, anzi soprattutto, le battaglie perse, rivendicando peraltro la loro giustezza a prescindere dal risultato finale. Dunque non può essere questa la ragione del silenzio, così come è difficile pensare che ci sia un pregiudizio antiamericano, tanto forte da impedire di guardare oltre il proprio naso. E allora perché? Troppo concentrati sulle loro piccole scaramucce, troppo presi dalla politique politicienne, troppo immersi nell’ultima diatriba per le candidature alle amministrative? O forse troppo ossessionati dalla battaglia contro Renzi, senza rendersi conto che appoggiarsi su quel che dice Sanders dalla sponda della nazione più forte del mondo alzerebbe il livello politico e culturale di quella battaglia?
La risposta, come cantava un altro americano, che ha la stessa età di Sanders e che nella sua vita ha detto più o meno le stesse cose, «is blowin’ in the wind». Chissà se i nostri sinistrati si ricordano di Bob Dylan.