il manifesto 16.2.16
Memoria sanzionabile
Storia. Anche
quest’anno durante il «giorno del ricordo» non sono mancate grottesche
manipolazioni della celebre foto di Dane e delle vicende legate al
confine orientale. Vespa, Storace e gli altri: ideologia della
«narrazione altra»
di Davide Conti
La foto è
molto conosciuta o dovrebbe esserlo. Siamo nel villaggio sloveno di Dane
(Loska Dolina) è il 31 luglio 1942 e cinque militari del regio esercito
italiano fucilano alla schiena cinque civili jugoslavi.
L’occupazione
fascista della Slovenia dura da oltre un anno (dal 6 aprile 1941) ed è
da tempo in atto da parte del governo di Mussolini la cosiddetta
politica di «snazionalizzazione» consistente nella sostituzione, tramite
la deportazione in campi d’internamento o la soppressione in loco,
della popolazione civile «allogena» (cioè jugoslava) con quella
italiana.
Nonostante la notorietà dell’immagine, conservata presso
l’archivio dell’Istituto storico della capitale slovena Lubiana, anche
nella celebrazione di quest’anno del «giorno del ricordo» non sono
mancate grottesche manipolazioni di una fotografia che già nella
trasmissione di Raiuno Porta a Porta venne presentata a parti invertite,
con gli italiani vittime della fucilazione e gli jugoslavi carnefici.
Da
ultimo lo ha fatto Francesco Storace, candidato sindaco di Roma, che ha
riprodotto la strage di Dane avendo cura di disegnare il tricolore
italiano dietro la schiena dei fucilati ed una falce e martello rosso
sangue dietro quella del plotone di esecuzione, ammonendo, con
significativa ironia involontaria, che «la sinistra dimentica» ma loro,
La Destra, no.
Tuttavia il significato dell’episodio, in un paese
come l’Italia, non è certamente circoscritto e circoscrivibile alla sola
area politica della destra ex missina. Dopo dodici anni di celebrazioni
ufficiali del «giorno del ricordo» e dopo un profluvio di fiction, talk
show e spettacoli teatrali le vicende del confine orientale più che un
«patrimonio costitutivo della nostra identità» — come affermato dal
ministro degli Esteri Gentiloni — sembrano rappresentare una
«narrazione» della storia piuttosto che la sua ricostruzione «svincolata
da ideologie».
Così se da un lato l’etnicizzazione del conflitto
(evocata dalla rappresentazione semantica di una violenza «slava» contro
gli italiani «solo perché italiani») diviene strumento utile a
svincolare storicamente il nostro paese dall’eredità criminale del
fascismo, dall’altro l’associazione tra l’Esercito Popolare di
Liberazione (Eplj) e l’ideologia comunista ripristina nell’immaginario
collettivo il vecchio uso propagandistico che il fascismo degli anni
venti fece dello «slavocomunista».
Chiunque abbia anche solo
sfogliato un libro di storia sa che la Guerra di Liberazione portò
l’Eplj a risalire e riunificare il territorio jugoslavo occupato
combattendo e sconfiggendo il nazifascismo nella sua dimensione politica
e non etnica, tanto che nemici di Tito furono anche altri jugoslavi
collaborazionisti come gli ustascia croati, i cetnici serbi ed i
domobranci sloveni oltre che i nazisti tedeschi e i fascisti.
Il
«narrato italiano» poggia poi le sue basi su un solido pilastro della
rappresentazione della storia nazionale: quel paradigma vittimario che
sintetizza insieme aporie della memoria; uso politico della storia e
ricomposizione selettiva del vissuto individuale e collettivo.
In
questo modo l’aggressione fascista alla Jugoslavia; i crimini di guerra
del regio esercito nei Balcani; l’impunità garantita istituzionalmente
ai responsabili politici e militari nonché il loro riutilizzo in seno
agli apparati di forza dello Stato nel dopoguerra, vengono espunti dal
«patrimonio costitutivo della nostra identità» armonizzato, di contro,
intorno al falso mito autoassolutorio del «bravo italiano» e ad
un’immagine «patria» che ci presenta come inconsapevoli vittime ora del
regime mussoliniano ora della cieca violenza slavo-comunista.
Quella
del 10 febbraio (ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi e
non delle violenze sul confine orientale del settembre 1943-maggio 1945
definite tutte in modo generico e non veritiero «infoibamenti») si
inserisce in una scelta di giornate della «memoria di Stato» che lungi
dall’essere un «calendario civile» codifica legislativamente una
«narrazione altra» da quella definitasi storicamente in termini
fattuali.
Così a date fondative come il 25 aprile 1945
(Insurrezione nazionale e Liberazione d’Italia) o il 2 giugno 1946
(nascita della Repubblica) si sovrappongono nelle cerimonie ufficiali
ricostruzioni che, deboli sul piano storico-scientifico, necessitano
della «protezione» non solo della propaganda politica bipartisan ma
anche di progetti di legge ad hoc, fortunatamente per ora accantonati,
che con la motivazione di combattere il negazionismo vorrebbero sancire
limiti di legge alla ricerca.
In ultimo, dunque, ci domandiamo:
Francesco Storace, Bruno Vespa e tutti coloro che hanno rovesciato la
realtà impressa dalla foto di Dane dovrebbero forse essere perseguiti
penalmente per negazionismo?
Certamente no. Sarà sufficiente la sanzione della Storia.