lunedì 15 febbraio 2016

La Stampa 15.2.16
Francesco: “La ricchezza è pane che sa di dolore”
Dopo la condanna al narcotraffico il Papa avverte le famiglie: “Non bisogna impossessarsi di beni che sono stati dati per tutti”
di Andrea Tornielli


«Fate del Messico una terra dove non ci sia bisogno di emigrare per sognare, dove non ci sia bisogno di essere sfruttato per lavorare, dove non ci sia bisogno di fare della disperazione e della povertà di molti l’opportunismo di pochi. Una terra che non debba piangere uomini e donne, giovani e bambini che finiscono distrutti nelle mani dei trafficanti della morte».
Papa Francesco, davanti a trecentomila persone, recita l’Angelus a Ecatepec, città satellite di Città del Messico, richiamando ancora una volta i messicani a trasformare il loro Paese. Centinaia di migliaia di persone hanno passato la notte all’addiaccio sfidando un freddo proibitivo che solo a metà mattina viene mitigato dal sole. Qualcosa non ha funzionato nella distribuzione dei biglietti gratuiti stampati dalla conferenza episcopale: ne sono stati distribuiti un numero inferiore rispetto alla capienza dei luoghi: «Nella mia parrocchia a Toluca ne hanno assegnati soltanto cento - dice Angelica Gomez, un’anziana signora avvolta in un poncho marrone che ha passato la notte sulla terra polverosa della spianata -. Tantissima gente è rimasta a casa».
La seconda giornata della visita è iniziata con un fuori programma: uscito dalla nunziatura, Francesco si è trovato tra decine di migliaia di persone che lo volevano salutare e ha fatto fermare la papamobile per scendere a salutare un gruppo di suore di clausura in attesa davanti al portone del loro monastero. Quindi ha abbracciato un gruppo di malati.
Nell’omelia della messa di Ecatepec, Bergoglio ha parlato delle tre tentazioni di Gesù nel deserto, che sono le stesse con cui «il cristiano si confronta quotidianamente», tre tentazioni che «cercano di degradare, di distruggere e di togliere la gioia e la freschezza del Vangelo». La prima è la ricchezza, cioè l’impossessarsi «di beni che sono stati dati per tutti, utilizzandoli solo per me o per “i miei”. È procurarsi il pane con il sudore altrui, o persino con la vita altrui. Quella ricchezza che è il pane che sa di dolore, di amarezza, di sofferenza».
La seconda tentazione è la vanità, cioè «quella ricerca di prestigio - spiega il Pontefice - basata sulla squalifica continua e costante di quelli che “non sono nessuno”. La ricerca esasperata di quei cinque minuti di fama che non perdona la “fama” degli altri. La terza è l’orgoglio, ossia «il porsi su un piano di superiorità di qualunque tipo, sentendo che non si condivide la “vita dei comuni mortali” e pregando tutti i giorni: “Grazie Signore perché non mi hai fatto come loro”».
«Con il demonio non si dialoga! Non si può dialogare!», perchè così vince sempre, ha detto alzando la voce e improvvisando il Pontefice, prima di ricordare che il tempo di Quaresima è un invito alla conversione.
Nel pomeriggio Francesco ha visitato l’ospedale pediatrico «Federico Gómez» a Città del Messico, rimanendo a lungo con i piccoli degenti del reparto di emato-oncologia.

Corriere 15.2.16
Il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949
Scomunica dei comunisti. Un errore da correggere
risponde Sergio Romano


A proposito della scomunica ai comunisti, mi spiega perché lei, come tanti altri non seguaci della Chiesa cattolica, vuole insegnarle a fare il suo mestiere?

Stefano Nitoglia

Caro Nitoglia,
Un cattolico adulto, come Romano Prodi definì se stesso, le risponderebbe che la Chiesa ha il diritto di essere ciecamente obbedita soltanto quando il suo capo parla ex cathedra ; e aggiungerebbe che in ogni altra circostanza il fedele ha il diritto di alzare la sua voce e manifestare, con le dovute forme, il suo dissenso. Un osservatore laico sarebbe per molti aspetti ancora più liberale e riconoscerebbe alla Chiesa il diritto di decidere quali regole applicare ai suoi seguaci, anche quando possono apparire datate e anacronistiche. Ma non potrebbe accettare senza reagire quando la Chiesa interviene in materie che rientrano fra le competenze e le responsabilità dello Stato.
Il caso della scomunica ai comunisti è per l’appunto in questa categoria. Ricordo per i lettori che il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949 affermava: «a) non essere mai lecito iscriversi ai partiti comunisti o dar loro appoggio, poiché il comunismo è materialista e quindi anticristiano;
b) che è vietato diffondere libri o giornali, i quali sostengono la dottrina e prassi del comunismo materialista ed ateo;
c) che i fedeli, i quali compiono con piena consapevolezza gli atti su proibiti, non possono ricevere i Sacramenti;
d) inoltre che i battezzati, i quali professano, difendono o propagandano consapevolmente la dottrina o prassi comunista, incorrono ipso facto nella scomunica riservata in modo speciale alla Santa Sede, in quanto apostati dalla Fede cattolica (l’apostasia è il passaggio dalla religione cristiana ad un’altra totalmente diversa — nel caso il materialismo ateo — e perciò più grave dell’eresia e scisma, quale sarebbe il passare dal Cattolicesimo al Protestantesimo».
Se questi divieti fossero stati applicati, più di sei milioni di cittadini italiani (i voti comunisti nelle elezioni del 1953 furono 6.121.922) sarebbero stati scomunicati e l’intera società cattolica italiana sarebbe stata implicitamente invitata a considerare la loro partecipazione al voto come nulla e non avvenuta. Se questo fosse accaduto, avremmo avuto il diritto di considerarci ancora un Paese democratico? Non era necessario essere comunisti per considerare quel decreto una minaccia all’unità nazionale. In quegli anni il comunismo, per le sue teorie e le sue affiliazioni internazionali, rappresentava certamente un rischio e una minaccia. Ma occorreva combatterlo nelle urne e in Parlamento. Aggiungo, caro Nitoglia, che nell’Italia di allora il decreto del 1949 avrebbe avuto l’effetto, in molti casi, di spezzare famiglie e amicizie. La Chiesa se ne accorse ed ebbe il grande merito di seppellire il decreto sotto una montagna di dubbi e incertezze. Di questo anche un laico deve esserle grato.

La Stampa 15.2.16
Banche, il premier tira dritto. Il decreto sulle Bcc non cambia
La regola che permette di non aderire alla holding sarà confermata
L’opposizione all’attacco: “Norma ad personam”.
Gli istituti più vicini a casa Renzi “graziati” dalla riforma
Quei 40 chilometri attorno a Rignano dove crescerà il nuovo polo del credito
Ora potranno espandersi acquisendo le realtà più piccole
di R. Gi.


Nel mondo del credito cooperativo non ci sono molti dubbi in proposito: la «clausola Lotti» nella riforma delle Bcc è stata studiata su misura per tre istituti di credito cooperativo toscani: la Bcc di Cambiano, la Bcc di Pontassieve, e ChiantiBanca, di San Casciano Val di Pesa. Sono queste - insieme alla Cassa Padana di Leno (Brescia) - le quattro Bcc che ad oggi rispettano il criterio stabilito dal governo (disporre di almeno 200 milioni di patrimonio), e che si sono dichiarate intenzionate a trasformarsi in società per azioni. Una «privatizzazione» (ottenuta pagando una penale pari al 20%) che le metterebbe fuori dalla holding delle Bcc. E che incidentalmente metterebbe in tasca ai soci privati le risorse accumulate per anni grazie ai sacrifici dei soci (niente utili) e grazie agli sgravi fiscali per le coop pagati dai contribuenti italiani.
«Nessun favore alle Bcc toscane», ha detto Matteo Renzi. Eppure, la geografia fa meditare, e suggerisce che ci sia lo zampino del cosiddetto «Giglio magico» dietro il progetto. Le sedi delle tre Bcc toscane sono vicinissime alla casa dove vive il premier, a Rignano sull’Arno: a volo d’uccello, Cambiano dista da casa Renzi 41 chilometri, 23 San Casciano Val di Pesa, e solo 6 Pontassieve. Ma fanno meditare altri aspetti: il padre del sottosegretario alla Presidenza Luca Lotti dirige una filiale di Firenze della Bcc di Cambiano, che ha già assorbito le Bcc di Pisa e di Castagneto Carducci. Il presidente di questo gruppo, Paolo Regini, è il consorte della super-renziana senatrice Pd Laura Cantini, vice di Renzi alla Provincia di Firenze. Un’altra personalità considerata vicina a Renzi, l’ex membro del board della Bce Lorenzo Bini Smaghi, già Banca Centrale Europea, si è dichiarato «disponibile ad assumere la presidenza» della nuova ChiantiBanca, che da parte sua ha appena «mangiato» le Bcc di Prato e di Pistoia.
Facile prevedere che le future nuove Spa bancarie nei 18 mesi di tempo assicurati dal decreto del governo possano proseguire la campagna acquisti già in atto. Fagocitando così altre Bcc toscane più piccole, attirate anche dalla possibilità di abbandonare il mondo coop e passare al capitalismo tradizionale. Ancora, non è escluso che in questo arco di tempo altre Bcc sotto la soglia patrimoniale cerchino di aggregarsi per potere - dopo l’unione - utilizzare la scappatoia.
A parte le tre Bcc toscane, solo la bresciana Banca Padana sembra intenzionata a sfruttare la «clausola Lotti», e diventare Spa. Tutte le altre Bcc dotate di patrimonio superiore ai 200 milioni di euro dovrebbero invece scegliere di restare nella holding, in cui resteranno circa 350 banche cooperative. È questa ad esempio l’intenzione della Bcc di Roma, la più grande di tutte con i suoi 750 milioni di patrimonio, resterà senz’altro nel gruppo. Sulla stessa linea anche la Bcc di Alba, con oltre 300 milioni di patrimonio, così come le altre banche di credito cooperativo di dimensioni maggiori: il Credito Cooperativo Ravennate, Banca Centropadana, Emilbanca, la Banca del Territorio Lombardo, le Bcc di Brescia e di Carate Brianza, la Cassa di Cantù e quella Padana, Banca Prealpi e Banca Malatestiana.

Corriere 15.2.16
Le opposizioni all’attacco sulle Bcc «Ora è una riforma ad personam»
Giorgetti: «Snaturato un testo condiviso»
di Andrea Ducci


ROMA La riforma delle banche di credito cooperativo continua ad alimentare le polemiche. In particolare, è finita nel mirino la norma che consente alle banche con più di 200 milioni di patrimonio di sottrarsi al meccanismo di adesione obbligatoria alla nascitura holding unica del settore. Una modalità che secondo i detrattori del provvedimento approvato dal governo, ma di cui ancora non si conosce il testo definitivo, si configurerebbe come discriminatoria (solo alcuni istituti potrebbero scegliere di non aderire), oltre che un regalo, poiché le banche cooperative, versando all’erario il 20% delle riserve indisponibili (accumulate in regime di esenzione di imposta) potrebbero disporre del restante 80% e diventare spa. Tanto che ieri la Lega Nord per bocca di Giancarlo Giorgetti ha rimproverato al governo di aver snaturato la proposta di autoriforma, condivisa, tra l’altro, dal mondo delle Bcc con Bankitalia e il ministero dell’Economia. «Il testo che è entrato a Palazzo Chigi era condiviso — ha spiegato Giorgetti a SkyTv24 — anche dall’universo del credito cooperativo, mentre quello in corso di pubblicazione ha avuto correzioni volute da Palazzo Chigi che deve risponderne». Bocciata soprattutto la norma che disciplina il way out dalla holding unica. «É totalmente ingiustificato che vengano ad personam esclusi alcuni istituti, magari territorialmente legati a chi sta a Palazzo Chigi: non si tratta solo di banche toscane. In generale non c’è nessuna logica nell’escluderne alcune e dirottarle verso il sistema spa, passando da un principio mutualistico a uno lucrativo e aprendo lo spazio a speculazioni che in questo momento il governo potrebbe risparmiarsi». I rilievi di Giorgetti, del resto, sono analoghi a quelli del viceministro dell’Economia, Enrico Zanetti, che pur difendendo l’impianto della riforma, contesta il meccanismo di uscita previsto solo per alcune Bcc, anziché tutte.
Dal fronte governativo a parlare è anche il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che evita l’affondo e si limita a dire che sulla soglia dei 200 milioni di euro «dobbiamo sentire le associazioni del credito cooperativo e poi se ne discuterà in Parlamento». Peraltro Alfano, così come Zanetti, rivendica la bontà del provvedimento nel suo complesso, aggiungendo «reputo ingiustificate le polemiche contro Renzi su questo punto. Mi sembra un modo di provincializzare un dibattito che invece ci collega all’Europa. Sono contrario ad aprire un fronte di scontro dentro il governo». Ma la miccia è ormai accesa e, in attesa del testo da pubblicare in Gazzetta Ufficiale, allarma il mondo cooperativo che teme di vedere intaccati i capisaldi che garantiscono risorse ai fondi mutualistici. Una dinamica che al di là delle dichiarazioni di rito governativo agita molti membri del governo.
Dall’opposizione Renato Brunetta (FI) soffia sulla polemica e attacca via Twitter l’ inner circle del premier Renzi, puntando sulle dichiarazioni a favore della riforma del sottosegretario Luca Lotti. «Neanche bravi a camuffare questi renziani, Lotti non parla mai. In questi giorni, invece, è iperattivo su Bcc. Gli stanno proprio a cuore...».

Repubblica 15.2.16
Unioni civili
La cattolica Fattorini “Stralciare è saggio il consenso si allarga”
Il mediatore grillino “Sono insaziabili dietro c’è Bagnasco”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA. All’appello del leader Ncd Angelino Alfano per fermare la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali, il senatore Alberto Airola - che ha seguito la legge per i 5 stelle - risponde con una risata. «È vergognoso che in questo Paese non si possano dare diritti ai gay e ai bambini. Si è creata una polemica ad arte che ha spaventato parte dei nostri elettori».
Senatore, il Movimento 5 Stelle tiene?
«Il mio gruppo è solido. Anche dopo la scelta di dare libertà di coscienza sulla stepchild mancheranno al massimo tre voti. Chi finora non ha detto un sì convinto vuole solo evitare di fare da stampella a Renzi».
Ci sono state prese di posizioni importanti.
«Sia Roberto Fico che Paola Taverna hanno detto di appoggiare la legge nella sua interezza. Adesso aspettiamo domani: se ci sarà un emendamento canguro che consentirà di saltare migliaia di emendamenti decideremo come agire. Certo sono insaziabili».
Chi?
«I cattodem. Quelli che continuano a chiedere mediazioni dopo averne ottenute moltissime».
Fa bene il Pd a non fidarsi di voi?
«Al Pd dico: chiaritevi e portiamo a casa diritti e uguaglianza per tutti i cittadini».
Ma allora perché la libertà di coscienza?
«Se non si fidano di noi per la libertà di coscienza sull’articolo 5 non possono fidarsi neanche di se stessi, visto che l’hanno data anche loro. Noi abbiamo due o tre casi, il Pd molti di più. Ho sentito Giorgio Tonini dire cose progressiste, ha capito che si tratta di una legge per tutelare i bambini, ha fatto un percorso. Mentre ci sono senatori, come Lepri, congelati nel loro no».
Perché secondo lei?
«Il problema è la Chiesa. Un pezzetto di Chiesa. Quella che ho visto quando andavo a girare documentari in Darfur non è quella del capo dei vescovi Bagnasco».

La Stampa 15.2.16
Liberalismo cercasi con urgenza
di Massimiliano Panarari


Nuove sono le mappe politiche dei nostri anni. E anche se le geografie non si sono stabilizzate, uomini politici e analisti si trovano a fare i conti con temi molto diversi da quelli che avevano contraddistinto la battaglia delle idee e la lotta politica lungo il Novecento. Tematiche, va sottolineato, sempre più spesso trasversali rispetto all’asse sinistra-destra, e capaci di mobilitare singoli e gruppi (cosa che le tradizionali narrazioni ideologiche ammaccatissime, o definitivamente archiviate, non sono più in grado di fare) sulla base di questioni valoriali o delle sensibilità intorno a quella che il sociologo Anthony Giddens ha definito la «politica della vita». Vale per l’aspro dibattito sulle unioni civili in corso in Italia, come per il ritorno sulla scena elettorale degli evangelici pro-life corteggiati dai competitor delle primarie del partito repubblicano americano.
L’oggetto del contendere si sposta su un terreno che si colloca a metà tra lo stile di vita e il patrimonio di concezioni etico-morali considerate come non negoziabili. Sono nuovi terreni post-ideologici all’insegna di fratture e cleavage (come li chiamano gli scienziati della politica) simbolici inediti. Ma la battaglia torna, proprio come in un certo passato, a essere ultimativa, negli Stati Uniti come nel nostro Paese. In Italia, in particolare, la spiegazione di questo contrasto modello «madre di tutte le battaglie» intorno al ddl sulle unioni civili rimanda a una serie di stratificazioni storiche e culturali di lungo periodo, che si saldano alle varie paure e inquietudini (reali o infondate) di cui si rivela costellata l’attuale epoca liquida.
La reazione diventa così quella di rifugiarsi all’interno di una trincea identitaria che consola coloro che vi si sono arroccati, ma non fa avanzare la discussione e la convivenza. E, per di più, si presta a non poche strumentalizzazioni che hanno, in genere, gioco facile perché il nostro Paese è meno moderno - in parti rilevanti della sua società, come nell’organizzazione e nel funzionamento generale dello Stato - di molte altre democrazie rappresentative occidentali. La difficoltà di affrontare la materia dei diritti individuali con le categorie del Secolo breve diventa quindi massima (ed estrema) proprio a casa nostra. Il fatto è che l’arretratezza nazionale nel campo dei diritti civili ha a che fare con l’eredità (di nuovo, trasversale) di quelle culture e subculture politiche egemoni nella storia novecentesca del nostro Paese che, dalla centralità delle masse a quella del gruppo, dal primato della classe sociale alla rivendicazione dell’identità (rigorosamente) collettiva, hanno teso a sacrificare l’individuo e le sue libertà. Queste dottrine e pratiche politiche hanno certamente svolto anche una funzione di incivilimento di una società per tanto tempo arcaica e culturalmente depressa, ma sono sostanzialmente rimaste delle «gabbie fordiste», deliberatamente aliene e spesso nemiche delle istanze di soggettività.
La diffusione dei valori post-materialisti ha trovato qui da noi una cultura liberale ancora molto «classica» e, per tanti versi, ottocentesca, che non aveva saputo (né voluto) diventare, in termini di mentalità, un patrimonio condiviso da settori ampi della popolazione. La somma di queste fragilità e dello sgretolamento delle antiche culture politiche ci espone così al rischio del dilagare senza freni della retorica di un nuovo «organismo collettivo» (tornato indistinto e generico, com’era prima delle divisioni sociali del XX secolo), il «popolo», vessillo a disposizione di imprenditori elettorali della paura che, a differenza dei partiti di massa italiani del secondo dopoguerra, hanno ben poco rispetto dei limiti e delle regole della Costituzione. Di fronte alle sfide intrecciate del populismo, del fanatismo e dell’integralismo, servirebbe allora una cultura politica di tipo innovativo, un liberalismo capace di svolgere un ruolo civile e «pedagogico» di educazione al valore prezioso della singolarità e della differenza, e in grado di operare la mobilitazione cognitiva e l’accrescimento delle competenze (sotto ogni profilo) degli individui. Cercasi urgentemente, insomma, un liberalismo positivo e postmoderno.

La Stampa 15.2.16
La grande paura dell’orso
di Francesco Guerrera


«Esce, inseguito da un orso». Serve la didascalia più famosa ed enigmatica di William Shakespeare, in «Il racconto d’inverno», per spiegare questo momento di panico nella finanza mondiale. Gli investitori sono paralizzati dalla paura di un «bear market», un mercato dell’orso.
Un mercato dell’orso che sta sbranando diversi mercati allo stesso tempo: dalle azioni alle obbligazioni, dal petrolio ai metalli pregiati, dalla Cina all’America.
La legge del capitalismo detta che quando un investitore voglia vendere un bene ce ne siano altri disposti a comprarlo a un determinato prezzo. Le crisi accadono quando quasi tutti gli investitori voglio vendere e nessuno vuole comprare. Come nel 2008, quando il crollo di Lehman Brothers provocò il collasso dell’economia mondiale.
Non siamo ancora ai livelli disperati del dopo-Lehman ma, dopo quasi due mesi di passione, ci sono parecchi mercati che stanno uscendo dalla norma, inseguiti da orsi grandi, aggressivi e affamati di sangue.
Venerdì mattina, ho chiamato un investitore che non si ferma mai, uno stakanovista dei mercati che di solito vende e compra azioni dalla mattina alla sera. Mi ha risposto dalla macchina, in viaggio verso il Sud dell’Inghilterra con la famiglia. «Mi sono preso un weekend lungo», mi ha detto. «Non c’è niente da fare in questi mercati».
Siamo nel mezzo del peggiore terremoto finanziario dai tempi della crisi del 2008. Ma a differenza di quel crollo – che fu causato da un’esplosione insostenibile nel debito di consumatori e banche, amplificata da errori di governi e banche centrali – gli scompensi odierni non sono il prodotto di un problema solo.
«E’ la convergenza di fattori diversi ma tutti pericolosi», mi ha detto un dirigente di uno dei più grandi fondi d’investimento mondiali la settimana scorsa mentre guardava i mercati europei sciogliersi come neve al sole.
Io citerei cinque ragioni dietro il profondo malessere dei mercati.
La Cina è vicina. Troppo vicina e troppo importante per gli Usa e l’Europa. L’ascesa stratosferica di Pechino nella galassia dell’economia mondiale fa sì che quando la Cina ha il raffreddore, il resto del mondo si prende l’influenza. Il rallentamento, naturale ed inesorabile dell’economia cinese riduce la crescita globale. Pechino ci ha messo del suo, con errori clamorosi nel controllo dello yuan che hanno fatto scappare investitori e impaurire i governi occidentali.
La salute del sistema bancario. E’ un paradosso del dopo-crisi: i governi e i regolatori hanno spinto le banche a costruire muri di capitale per evitare i collassi del passato. Ma il costo di quegli edifici sta riducendo gli utili e rendendo difficile la vita di amministratori delegati, impiegati e azionisti.
Da due settimane, le paure hanno raggiunto livelli altissimi: è possibile – si chiedono gli investitori – che le banche non abbiano soldi per pagare gli interessi sulle proprie obbligazioni? Questa settimana, Deutsche Bank e Société Générale, due colossi europei, sono state costrette a dire esplicitamente che avevano ampi mezzi per saldare i conti. Deutsche ha addirittura deciso di comprare e ritirare 5,4 miliardi di dollari di debito, una mossa disperata, dettata solamente dai patemi del mercato.
L’impotenza delle banche centrali. Le cose belle durano poco e pure le cose così-così non durano per sempre. Il torrente di stimolo scatenato dalle banche centrali americana, europea e giapponese per tenere i tassi d’interesse bassi è ormai secco.
Lo ha spiegato bene Michael Harnett, il capo della ricerca di Bank of America Merrill Lynch, in una durissima nota uscita giovedì scorso. Secondo Harnett, «gli investitori si stanno ribellando» allo stimolo delle banche centrali. Dopo 637 tagli ai tassi d’interesse da parte delle banche centrali dai tempi del crollo di Bear Stearns nel marzo del 2008, dopo più di 12 mila miliardi di dollari immessi nei mercati, l’economia mondiale non cresce e gli investitori hanno capito che Mario Draghi, Janet Yellen e compagnia non hanno più munizioni.
Le politiche monetarie europee e giapponesi fanno male alle banche. I tassi bassi sono la kriptonite delle banche, perché non permettono di guadagnare soldi sulla differenza tra il prezzo del denaro che prendono in prestito e quello che danno in prestito. Ma negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone (e pure quella svizzera e quella svedese) hanno fatto di peggio: hanno spinto i tassi sotto lo zero. Gli interessi negativi sono una tassa sulle banche. Gli investitori questo lo sanno e stanno scappando dalle azioni delle società finanziarie.
L’incertezza regna sovrana. In politica, le vecchie certezze non contano più. In America, non è impossibile prevedere una campagna presidenziale tra il populismo aggressivo di Donald Trump e il socialismo impraticabile di Bernie Sanders. In Europa, i prossimi mesi saranno dominati dal referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea, che potrebbe portare al divorzio di uno dei paesi più importanti del continente. E il Medio Oriente rimane un vulcano attivo e pronto ad eruzioni.
I mercati odiano l’incertezza e in questo momento sono circondati da un mare magnum d’incertezza.
Ci sono speranze? Senza dubbio. C’è chi pensa che i mercati delle ultime settimane siano troppo pessimisti. Che si stiano comportando come se il mondo stesse per ricadere nella recessione, ma in realtà le economie-guida continueranno a crescere nel 2016 e nei prossimi anni.
Ed è anche vero che le banche sono molto più preparate a crisi di questo tipo proprio grazie alle regole create dopo la crisi del 2008. E in politica, lo scenario più probabile è che Hillary Clinton sfiderà non Trump ma un moderato come Marco Rubio o un conservatore di ferro come Ted Cruz nelle presidenziali di novembre. E gli investitori continuano a sperare che la Gran Bretagna voti con la testa e non con il cuore e decida di restare nell’Unione Europea.
Nessuno sa se Shakespeare abbia utilizzato un orso vero o finto – un attore vestito da orso – nella prima del «Racconto d’Inverno» nel 1611. Nel 2016, non sappiamo se questo sia un mercato dell’orso vero o finto, un malessere passeggero o una malattia cronica. Anche questo è incerto. Ma fino a quando non è chiaro, occhio agli orsi e agli investitori in fuga.
Francesco Guerrera è il condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe a Londra

Corriere 15.2.16
La doppia umiliazione delle statue coperte
di Pierluigi Battista


Sono passati circa venti giorni da quando la Venere Capitolina è stata sbeffeggiata e inscatolata per non urtare la suscettibilità del presidente iraniano in visita a Roma. 17 miliardi di scambio commerciale con Teheran sono stati sufficienti per infliggere all’Italia una figura umiliante, ma sull’onda del discredito internazionale la presidenza del Consiglio e il ministero per i Beni e le Attività culturali hanno fatto la faccia feroce promettendo di avviare un’indagine e di scoprire i colpevoli di una vicenda grottesca e sconfortante. Venti giorni invece non sono stati sufficienti per dimostrare la serietà di quella faccia feroce. Di quell’inchiesta non si è poi saputo più niente. Il colpevole non è venuto fuori, figurarsi. La percezione che i colpevoli siano solo dei fantasmi appare sempre più credibile, a meno che per colpevoli si facciano passare i solerti funzionari che hanno applicato con zelo direttive politiche probabilmente concepite ed emanate nelle stesse stanze che poi, per scaricare gli effetti di una brutta figura sulla solita «burocrazia» senza volto, hanno messo in scena il copione dell’indignazione tardiva. Venti giorni passati inutilmente. Di più: al ridicolo si aggiunge il ridicolo di indagini senza costrutto, di inchieste senza sbocco, di ricerche senza risultati. Ma è davvero così complicato scovare il misterioso e imprendibile colpevole? Forse sarebbe il caso di sollecitare i goffi indagatori, e di non confidare sull’oblio degli italiani che, figuraccia per figuraccia, sono addestrati a perdonare il solito chiacchiericcio dei governanti che non mantengono ciò che hanno promesso.
Tra l’altro, dopo l’umiliante inscatolamento delle opere d’arte coperte per compiacere il munifico ospite, durante la trasmissione della 7 Piazzapulita , i dipendenti dei Musei capitolini, ovviamente a volto coperto per non incorrere nelle ire dei dirigenti che avevano eseguito l’ordine censorio, hanno riferito, mai smentiti, che per quel giorno le dipendenti donne avrebbero potuto disertare il lavoro. Sempre per non offendere il dittatore di Teheran insofferente all’immagine di donne non umiliate dalla rituale velatura di sottomissione. Se fosse vero, questa proterva cancellazione femminile nel giorno della visita di Rouhani, ottenuta con la complicità dei responsabili del museo romano, sarebbe ancora più grave del ridicolo e offensivo inscatolamento delle statue. Inutile chiedere chi è stato: i nostri indagatori sono in ferie.

Repubblica 15.2.16
Giulio Regeni
Chi si arrende alle bugie diventa un complice
di Gabriele Romagnoli


DI CERTO c’è solo che è morto. Quel che il giornalista Tommaso Besozzi scrisse a proposito della fine del bandito Giuliano, sbugiardando la versione ufficiale, si può scrivere oggi per Giulio Regeni. Possiamo purtroppo aggiungere altre due certezze.
La seconda è che le responsabilità vanno cercate negli stessi apparati di polizia che indagano o fingono di indagare o sviano le indagini sull’accaduto. La terza è che questa verità, pur sotto gli occhi, non sarà mai su carta, nero su bianco, conclamata e capace di conseguenze agli opportuni livelli, dai garage dove avvengono le torture alle terrazze da cui si vede il Nilo. Fa male quanto le altre considerazioni ammettere che in questi casi si diffonde una sorta di fatalismo di Stato, una ragion deviante che accompagna le traiettorie di un’inchiesta, curva dopo curva, verso il vicolo cieco, un muro di mattoni su cui sta scritto a spray: dimenticare conviene.
È già accaduto altre volte, accadrà ancora, anche questo sappiamo. Lo schema è sempre lo stesso. Esiste un potere che si fonda su procedure pseudo- democratiche e per questo si guadagna il riconoscimento da parte della comunità internazionale, dopo che i rapporti degli ispettori Ocse sulle tornate elettorali sono stati cestinati. Il fondamento di questo rispetto non si basa su una affinità di valori e intenti, ma su una varietà di opportunismi economici e politici. Sono spesso in ballo accordi finanziari di grande rilievo. E disturbare il manovratore mettendone in dubbio la legittimità o la legalità significherebbe riaprire le porte al caos, alla sua sostituzione con figure più pericolose per il controllo della situazione in aree a rischio. La si definisce strategia del male minore. Ora, andate a spiegare quanto minore sia questo male alla vedova di Alexander Litvinenko e fatele accettare l’idea che non esistono prove in grado di collegare l’avvelenamento al polonio di suo marito allo zar russo che l’aveva preso di mira. Andate dai genitori di Giulio Regeni a spiegare quanto minore sia il male di rimettere a un faraone e alla sua corte il peccato di aver massacrato il loro figlio.
È sempre lo stesso schema: l’abbiamo già visto e lo vedremo ancora. Quel potere pseudo- democratico, con cui però si viene a patti, nazionalizza le televisioni, sottomette i giornali e controlla i corrispondenti stranieri. Che in Egitto funzioni così l’ho sperimentato di persona lavorandoci per un anno ai “ dorati” tempi di Mubarak. I colleghi locali mi spiegarono le regole di sopravvivenza. Per superficialità ne violai una: « Mai scrivere Mubarak, la censura è un computer, inserisce la funzione cerca parola, tu non usare il nome e sei a posto » . Lo feci e immediatamente ne pagai le conseguenze. Definisco “ dorati” quei tempi perché invece di farmi sparire mi diedero 24 ore per lasciare il Paese. Poi l’intervento di un diplomatico e della direzione di questo giornale mi valse una proroga di sei mesi. Fui convocato dall’addetto alla stampa straniera in un ufficio vuoto, il genere più temibile. Sulla scrivania, una sola carpetta. Conteneva i fax dall’Italia con tutti i miei articoli dall’Egitto tradotti in arabo. Ogni “ spiacevolezza” era stata sottolineata. Teatralmente il funzionario le rilesse una dopo l’altra stacciando le pagine. Lasciò intatta solo quella su Mubarak e la rimise nella carpetta. Aggiunse: « La prossima volta non ci rivedremo » . Giulio Regeni non ha avuto una seconda occasione. Chiunque creda che quel che scriveva non fosse letto da occhi attenti o che lo pseudonimo valesse a proteggerlo, sogna e non si è ancora svegliato.
Ci sono molte buone ragioni per cui cedere al fatalismo e ammettere che, sì: dimenticare conviene. Ce n’è una per non farlo: noi siamo vivi e Giulio è morto. Glielo dobbiamo perché siamo ancora qui, con gli occhi che vedono, la testa che ragiona e il cuore che batte. Siamo qui a fare 2+ 2, mica ci vuole un algoritmo per certe conclusioni. Siamo qui, ognuno con i suoi mezzi: chi un cartello con cui protestare, chi un computer acceso, chi una scrivania vuota con sopra il telefono collegato ai numeri giusti. Rassegnarsi all’ineluttabilità della menzogna è diventarne complici morali. In un mondo libero chi si piega per convenienza è morto molto, ma molto prima di Giulio Regeni.

La Stampa 15.2.16
Caso Regeni, Letta sferza l’Italia
“Troppa indifferenza per Giulio”
Su Twitter l’ex premier attacca istituzioni e mass media: “Non c’è lo sdegno che il livello delle notizie terribili che arrivano dall’Egitto richiederebbe”
di Fabio Martini


Finora il fronte interno aveva sostanzialmente tenuto, pochissime voci avevano invocato maggior energia da parte del governo italiano sul caso Regeni, ma ora è Enrico Letta, predecessore di Matteo Renzi a palazzo Chigi, a proporre un interrogativo, con due tweet: «Solo una mia impressione? Perché su caso #GiulioRegeni emozione nel Paese non a livello delle notizie terribili che arrivano dal #Cairo?». E ancora: «Troppa indifferenza per Giulio». Parole misurate, che non chiamano in causa direttamente il governo o il presidente del Consiglio, ma semmai il sistema-Paese nel suo complesso: governo e premier, certo, ma anche mass-media e istituzioni. Sulla rete si è acceso subito uno scambio di messaggi che hanno colto l’essenza della questione sollevata da Letta. C’era chi dava la colpa «all’informazione che non va bene», c’era chi sosteneva che questa apatia è legata al fatto che «i renziani hanno in mano stampa e tv e addomesticano tutto». Qualcun altro ipotizzava che «interessi economici prevarranno su sdegno».
Reazioni “da rete” che però colgono un punto: sui mass media italiani finora il dolore e lo sdegno per la morte del giovane italiano non si sono tradotti in una pressione energica perché il governo italiano affronti il caso con maggiore convinzione. Davanti all’escalation di dettagli atroci sulle sevizie subite da Regeni e davanti a richieste di chiarezza che finora erano state espresse con energia da un altro ex capo del governo, Massimo D’Alema, le reazioni di Palazzo Chigi sono state segnate dal tratto dell’ufficialità. L’altro giorno, intervenendo a “Radio anch’io”, il presidente del Consiglio ha detto testualmente: «E’ una vicenda drammatica e noi agli egiziani abbiamo detto: l’amicizia è un bene prezioso ed è possibile solo nella verità». Nei giorni precedenti Renzi si era espresso così: «Per ora abbiamo tutte le risposte che avevamo chiesto e abbiamo preteso che davanti a tutti gli elementi dell’inchiesta siano seduti allo stesso tavolo anche i nostri esperti perché siano presi i veri colpevoli».
Espressioni formalmente ispirate da una richiesta di chiarezza, ma flebili se confrontate all’enfasi che un leader come Renzi sa porre sulle questioni che gli stanno a cuore. Alcuni giorni fa un personaggio come il direttore di Micromega, Paolo Flores d’Arcais, che sicuramente detesta Renzi, però ha ben sintetizzato i “precedenti” che potevano far immaginare una reazione “alta” davanti al caso Regeni: «La parola “orgoglio” associata a “Italia” è stata usata da Renzi in tante occasioni, dall’inaugurazione dello Skyway sul Monte Bianco alla vittoria di Paltrinieri nei 1500 stile libero nei mondiali di nuoto (“strepitoso Gregorio, orgoglio Italia”), dal “decreto banche” al volo in Perù».
E anche se Renzi e i servizi italiani dispongono di informazioni al momento indisponibili all’opinione pubblica, il profilo basso tenuto dal governo italiano sta suscitando più sorpresa all’estero che in Italia. Sulla vicenda ieri è intervenuto, con parole misurate, anche il presidente dei deputati di Forza Italia Renato Brunetta: «Caso Regeni va risolto, trovare verità. Salvaguardare rapporti Italia-Egitto ma pretendere max collaborazione. Governo faccia di più». Oltre a editoriali molto affilati sui giornali anglosassoni, si moltiplicano le petizioni. Paz Zàrate, esperta di diritto internazionale a Cambridge e columnist, amica di Regeni, sua ex collega al think tank Oxford Analytica, è l’ispiratrice di una petizione inviata al Parlamento britannico in cui si chiede una indagine seria: «Gente legata all’ambiente accademico che non conosceva Giulio ha fatto la fila per ore venerdì davanti all’ambasciata italiana a Londra. La scarsa attenzione dell’Italia è imbarazzante».

Repubblica 15.2.16
Il fronte dell’Est: “No all’accoglienza”
Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: oggi vertice anti-profughi
di Andrea Tarquini


BERLINO. Si incontrano oggi a Praga, in un vertice “a quattro” per voltare le spalle all’Unione europea dell’accoglienza ai migranti. I leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria sono decisi a condividere la linea della “tolleranza zero” contro i profughi. Ovvero: chiudere subito la cosiddetta “rotta dei Balcani”. Il “gruppo di Visegrad” creato dai quattro paesi «in nome dell’integrazione europea », diventa fronte del rifiuto. No ai profughi: azioni congiunte per blindare le frontiere, no alla solidarietà e ai valori costitutivi dell’Unione. Il loro unico sì all’Europa è quello agli ingenti aiuti, che per i polacchi equivalgono a un 1,2 per cento annuo di crescita del pil.
Da Varsavia a Budapest, da Praga a Bratislava toni e scelte di xenofobia accompagnano spinte e svolte autoritarie. Priorità all’esecutivo, sempre meno spazio a parlamenti, giustizia paralizzata e media epurati. Il loro «ì solo all’Europa delle patrie» è una sfida che può diventrare un’insidia minacciosa al futuro stesso della democrazia europea.

Il Sole 15.2.16
il vertice del 18 e 19
Le tante debolezze dell’Europa assediata
di Adriana Cerretelli


È cominciato male il 2016. Potrebbe proseguire peggio per l’Europa assediata dal crescente disordine mondiale come dalla propria conclamata incapacità di autogovernarsi di fronte alla molteplicità delle crisi che la tormentano. Salvo sorprese, auspicabili ma improbabili, il vertice dei 28 capi di governo dell’Unione, che si riunirà a Bruxelles giovedì e venerdì prossimi, si limiterà a prenderne atto nella solita, ma sempre più preoccupante, professione di impotenza collettiva.
Sul tavolo negoziale ci sono Brexit ed emergenza rifugiati, due eventi egualmente traumatici e potenzialmente letali per la tenuta dell’Unione, almeno nella coniugazione a 28 che attualmente conosciamo.
L’obiettivo dichiarato della vigilia è chiudere il vertice con un accordo con la Gran Bretagna di David Cameron, in grado di fugare, al referendum del 23 giugno, lo spettro dell’uscita dalla Ue. Ma l’esito della partita in corso è tutt’altro che scontato. Nemmeno l’accordo è sicuro al 100%, tanto che le trattative proseguiranno fino all’ultimo minuto.
Londra chiede la ristrutturazione dei suoi rapporti con l’Unione ma, facendolo, pretende di mettere a repentaglio l’integrità di alcune conquiste europee, come il mercato finanziario unico, l’unione bancaria, la libera circolazione dei cittadini-lavoratori, la sovranità decisionale dell’area euro rispetto a quella dei Paesi che hanno scelto di starne fuori. Non solo: le concessioni che alla fine otterrà varranno erga omnes, in breve potrebbero diventare il principio di una lunga catena di rivendicazioni nazionali sparse, come dire l’inizio del graduale smantellamento della costruzione europea.
Oggi, dunque, l’Europa è davanti a un dilemma impossibile: meglio il divorzio inglese o il harahiri interno? Per tentare di scongiurare entrambi i mali sta cercando un miracoloso punto di equilibrio negoziale, che però non si sa quanto, alla prova dei fatti, sarà credibile, efficace e accettabile a tutti.
Ancora più drammaticamente inestricabile e divisiva la matassa rifugiati, nella quale si gioca la tenuta di Schengen, quella del governo Merkel in Germania insieme alla sua leadership europea e, last but not least, quella della pace continentale. In breve, il destino ultimo dell’Europa.
Quanto sia alta la posta lo dice chiaro il premier russo Dmitry Medvedev, quando parla di «obbligo di negoziare sulla Siria per evitare una nuova guerra mondiale», mentre il presidente del Consiglio d’Europa denuncia lo stesso rischio nei Balcani occidentali, i Paesi da cui transitano migliaia di rifugiati in marcia dalla Grecia verso la Germania.
Anche in questo caso l’Europa si ritrova in un vicolo cieco: constatata la propria inadeguatezza a gestire il problema, complici egoismi nazionali e confitti d’interessi finora irrisolti, ha tentato la scorciatoia dell’outsourcing. Con la rivolta in casa dopo stupri e violenze di Capodanno a Colonia, Angela Merkel si è fatta garante di un ricco patto con la Turchia: aiuti per 3 miliardi per sistemare in campi adeguati e dare opportunità di lavoro ai 2,7 milioni di rifugiati che ospita, liberalizzazione dei visti per i turchi e ripresa dei negoziati di adesione alla Ue.
Non solo la risposta di Ankara è stata tutt’altro che positiva – da inizio anno al 7 febbraio sono arrivati in Grecia dalla Turchia 70.365 migranti , 2mila al giorno -, ma il presidente Erdogan, proprio nel giorno in cui la Nato annunciava la sua missione di pattugliamento nell’Egeo, mandava a dire all’Europa: «I turchi non hanno scritto idiota in fronte, saranno pazienti, ma alla fine faranno quello che devono». In parole povere, lasceranno andare i rifugiati in Grecia e Bulgaria. Minaccia tanto più inquietante se non dovesse funzionare la tregua annunciata in Siria per i primi di marzo: «Se i bombardamenti russi non si fermeranno, potrebbero arrivare in 600mila alla frontiera turca».
Se, come sembra, la carta turca non funziona e se si conferma l’assenza di solidarietà intra-europea nella spartizione per quote dei disperati, l’alternativa inevitabile si annuncia la sospensione di Schengen per due anni in maggio, previa chiusura ermetica della frontiera tra Grecia e Macedonia (ma non è escluso che finisca tagliata fuori anche l’Italia con le sue lunghe coste poco controllabili).
Le avvisaglie ci sono tutte: la Grecia, che nel 2015 è stata sommersa da 900mila profughi e che solo quest’anno dovrà spendere un miliardo di euro, lo 0,5% del suo Pil, per gestire la crisi, visto che gli aiuti Ue servono solo a creare i centri di raccolta e identificazione, ebbene la Grecia giovedì ha ricevuto dall’Europa tre mesi di tempo per mettersi in regola attuando nientemeno che 50 precise raccomandazioni. Impresa evidentemente impossibile, ma l’alibi moral-politico che serve all’Europa per espellerla da Schengen trasformandola in un immenso campo profughi, a uso anche della Turchia. Siccome però la sospensione di Schengen avrebbe un costo proibitivo, l’equivalente di una tassa del 3% sul commercio intra-Ue che calerebbe del 10-20%, con una riduzione del Pil dello 0,8%, in soldoni 100 miliardi all’anno, è molto più probabile che alla fine la scelta sarà un’altra. L’arroccamento su una Schengen più piccola, dalle frontiere più controllabili, magari nel formato Germania, Austria, Francia e Benelux e qualche Paese dell’Est. È in questo scenario che l’Italia rischia la marginalizzazione.
Saranno tempestose le discussioni al vertice europeo sullo sfondo, come se non bastasse, del rischio concreto di una nuova grande crisi economica e finanziaria mondiale. Non si sa quanto saranno anche concludenti. La Merkel, però, il 13 marzo deve affrontare il primo importante test elettorale in tre Laender cruciali. Non può permettersi di tornare in Germania a mani vuote. Anche se non si vede come oggi possa riempirsele in questa Europa.

Repubblica 15.2.16
Basta muri: sono castelli che scatenano nuovi assedi
di Roberto Saviano


Dobbiamo fermare i soldi della criminalità non gli esseri umani
MENTRE i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo — nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano — il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente.
Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini.
Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture — l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo — sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “ evoluzione” indipendente dalla struttura madre.
È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “ stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi.
Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti.
La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono — nella migliori delle ipotesi — evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein.
E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga — le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti — perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?
Da oggi, ogni lunedì, l’alleanza editoriale Lena ( Leading European Newspapers Alliance) di cui Repubblica fa parte insieme con El País, Figaro, Die Welt Tribune de Genève, Tages Anzeiger e Le Soir, pubblicherà contemporaneamente su tutti i suoi quotidiani un editoriale su un tema europeo. A inaugurare la serie con questo articolo è proprio Repubblica © LENA, Leading European Newspaper Alliance

Repubblica 15.2.16
L’assedio di Aleppo
di Fabio Scuto


Sfiancati dai bombardamenti russi, i miliziani si preparano a battersi strada per strada Migliaia di persone sono già fuggite nelle settimane scorse, altre lo stanno facendo ora
Ad Aleppo, patrimonio dell’Unesco dal 1986, la guerra è arrivata nel luglio del 2012: da allora la città è stata devastata dai bombardamenti

GERUSALEMME. La torretta del tank T-90 rotea sui cingoli e posiziona, ben inquadrato dalla tv di Stato siriana, il suo cannone in direzione di Aleppo. Sparare da Tamura, il villaggio strategico da cui si domina il pianoro che lentamente digrada verso la città, è per gli artiglieri come essere al poligono. Non distante altri carri armati prendono posizione sulla Highway n.5, che porta verso Raqqa, la capitale del Califfato.
Un anello militare si sta chiudendo attorno ad Aleppo, in città piovono le bombe a grappolo che i Sukhoi-30 russi sganciano quasi senza sosta da 3 giorni, oltre cinquecento le missioni dei caccia russi per sostenere la riconquista non solo della città ma di tutta la sua regione nella parte ovest, fondamentale per la nascita di “Alawistan”, il mini-Stato che Bashar al Assad e i suoi sperano nasca dalle rovine della guerra, perché la “vecchia” Siria – è chiaro anche a loro ha da tempo cessato di esistere.
La cattura di Aleppo può determinare il destino della guerra nel resto del nord della Siria.
Una vittoria militare fra queste colline taglia la via ai ribelli “sunniti” verso il confine con la Turchia da dove arrivano armi e rifornimenti, e li intrappola tra le forze di Assad che vengono da sud, le forze curde del Pyd che sono a nord, e i miliziani del Califfato a est.
Venti chilometri a nord della città un’altra battaglia è in corso. I jet militari turchi bombardano per il secondo giorno consecutivo la base militare siriana di Menagh, caduta nelle mani dei curdi del Pyd, alleati dei siriani e dei russi in questa battaglia. Menagh era nelle mani di Jabhat al Nusra prima, ed era un perfetto punto di stoccaggio di armi e rifornimenti che arrivano dal poroso confine turco, che dista solo 6 chilometri.
In città i comandanti militari ribelli rinforzano le posizioni, annunciano di aver scavato tunnel, preparato trappole per fermare l’avanzata di Hezbollah libanesi e volontari venuti dall’Iran che affiancano le forze di Assad nella campagna.
Ma nonostante i proclami altisonanti, la città non sembra aver la forza di resistere. I quartieri a ovest sono sotto il controllo di una galassia di formazioni, divise e rivali fra loro. C’è una presenza dell’Esercito libero siriano, gruppi islamici come Jabhat al Nusra, l’Esercito dell’Islam e Ahrar a Sham. L’Is mantiene una piccola forza dentro i confini della città ma controlla ampie fasce di territorio ad Est e Nord. Sessantamila i miliziani in armi che si aggirano fra i palazzi sventrati dai bombardamenti. I civili sono in fuga, oltre centomila sono in marcia o si stanno già accalcando sui reticolati turchi al valico di Kilis. E’ già un disastro umanitario. «Oggi quasi 400mila persone rimangono nelle zone non controllate dai governativi. Chi poteva è già fuggito», dice Dalia Al-Awqati, capo dei programmi di Mercy Corps nel nord della Siria.
Mentre le forze fedeli ad Assad e i suoi alleati stringono il cappio attorno alla città, i comandanti ribelli annunciano di aver pianificato una difesa all’ultimo uomo, fanno sapere dell’arrivo di rifornimenti, armi sofisticate. I qaedisti di Al Nusra hanno fatto entrare anche 1.800 uomini di rinforzo. Osama Taljo, uno dei 25 membri del consiglio comunale della zona in mano ai ribelli, annuncia ai microfoni di Al Arabya, «abbiamo materiali e risorse per resistere almeno un anno, spero anche di più». Abu Firas, un ex colonnello dell’esercito siriano e oggi comandante di Al-Sham, il maggiore gruppo ribelle in città, sostiene che «i governativi di Assad non hanno abbastanza effettivi per mantenere una pressione militare così a lungo, negli scontri a terra abbiamo ucciso molti volontari libanesi, pachistani e iracheni».
Ma non sono tutti così ottimisti. Per il generale Salem Idris – ex capo militare dell’Esercito libero siriano – non c’è nessun coordinamento fra le forze ribelli. «Nemmeno adesso c’è un comando centrale in città, ci sono troppe rivalità e probabilmente nessuno si rende conto di ciò che accadrà nei prossimi giorni».
I generali russi e iraniani hanno imposto a Bashar al Assad per Aleppo un cambio di strategia. Niente battaglia strada per strada, case per casa, dove la predominanza aerea russa è inutile e governativi, Hezbollah libanesi e volontari iraniani dovrebbero combattere su un terreno sconosciuto. Concluso l’accerchiamento la città e blindato l’assedio, l’abitato verrà bombardato sistematicamente per settori.
I ribelli e i civili che saranno sopravvissuti non potranno fuggire, non avranno né cibo né acqua. Alla fine avranno solo due possibilità: morire, di fame o sotto le bombe, oppure arrendersi ed essere uccisi sul posto.
Il destino di Aleppo è segnato.

La Stampa 15.2.16
Giovani, gay e single
Così sta cambiando la famiglia a Pechino
Il Paese invecchia e la forza lavoro non basta
Ma l’addio al figlio unico non fa ripartire le nascite
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Giovani, single e fieri di esserlo. Uno strano manifesto pubblicitario è apparso nelle metropolitane di Pechino in questi giorni di feste comandate. Recita: «Cari mamma e papà, non preoccupatevi. Il mondo è grande e ci sono tanti modi differenti di vivere. Per essere felici non è necessario sposarsi».
Questa è la stagione del capodanno cinese, il momento in cui si ci si ritrova con la famiglia. Come per noi il Natale. E anche qui è il momento delle domande scomode, quelle che rovinano la digestione: quando ti sposi? Quando ci regali un nipotino? La pressione è tale che un gruppo di ragazzi ha deciso di affittare alcuni spazi pubblicitari per convincere le «vecchie generazioni» che sposarsi non è l’unica via percorribile per costruirsi un futuro.
Uno dei fondatori del gruppo, il 33enne Han Degan, ha rilasciato un’intervista all’agenzia di stampa governativa Xinhua. «Quando andavo al liceo i miei genitori non volevano neppure che mi innamorassi, ma appena mi sono laureato, a 25 anni, sono diventati impazienti sul mio matrimonio». E aggiunge: «Siamo due generazioni che hanno visioni completamente differenti su matrimonio e famiglia».
In Cina, dove la burocrazia norma anche gli aspetti più intimi della vita, il certificato di matrimonio è uno dei documenti richiesti per mettere al mondo un figlio o, dal primo gennaio di quest’anno, due. Sì, perché siamo in un Paese che ha una Commissione nazionale «per la pianificazione famigliare» e che passerà alla storia per quello che verrà ricordato come il più grande esperimento di ingegneria umana portato avanti da uno Stato: l’obbligo a un unico erede. Una legge del 1980 che ha costretto milioni di cinesi a confrontarsi con aborti forzati, femminicidi in culla e figli illegittimi ma, attraverso 400 milioni di nascite «evitate», ha aiutato la Cina a diventare la seconda economia mondiale. Ma che 35 anni dopo ha trasformato il Paese in «una bomba demografica a orologeria».
Secondo un rapporto Onu, nel 2050 la Repubblica popolare dovrà occuparsi di quasi 440 milioni di ultrasessantenni. Nel frattempo la popolazione in età da lavoro diminuisce dal 2012.
E sono ormai diversi anni che calano i matrimoni. Parallelamente, aumentano i divorzi (nelle grandi città ormai il tasso è del 40%) e le coppie dichiaratamente gay. A gennaio di quest’anno un tribunale cinese ha aperto il primo caso legale a difesa delle nozze tra persone dello stesso sesso. La vittoria è tutt’altro che certa, ma è di certo un segnale importante per capire quanto in fretta stia cambiando la Cina. Si pensi che fino al 1997 l’omosessualità era reato e solo nel 2001 è stata cancellata dalla lista delle malattie mentali.
Per queste ragioni la Repubblica popolare ha deciso di rivedere la politica delle nascite. Nel 2014 alle coppie composte da due figli unici è stato permesso un secondo figlio. Ma l’incremento demografico sperato non c’è stato. Anzi. Le statistiche ufficiali del 2015 parlano di 320 mila nuovi nati in meno rispetto all’anno precedente. Così, la possibilità del secondo figlio è stata estesa a tutti.
«Lo Stato si aspetta che una legge sia sufficiente a convincere la popolazione a fare figli, non si rende conto che la società è cambiata. Servirebbero sussidi». A parlare è Qi Hongyan, una professoressa di cinese di 38 anni. Ci fa accomodare in una classe vuota durante la sua pausa pranzo. Lavora nelle scuole private, perché nel pubblico prenderebbe una miseria. Suo marito ha la sua stessa età, è dirigente in un’azienda di software. Si ritengono ceto medio, il loro reddito famigliare è intorno ai duemila euro al mese. Hanno un figlio che sta per compiere sei anni. Ne avrebbero voluto un altro, «i nonni sarebbero felicissimi». Così quando è passata la nuova legge si sono messi a fare i calcoli: circa 25 mila euro fino alla fine della scuola dell’obbligo per lo stretto necessario. Ma lei dovrebbe smettere di lavorare. «Crescere un figlio costa. I nostri genitori hanno una mentalità contadina. Pensano: più figli si hanno e meglio si sta. Non si rendono conto di quanto è dura: il posto fisso e lo stato sociale non esistono più».
Racconta che due coppie di genitori dei compagni di classe di suo figlio sono in attesa del secondo. Non accettano di essere intervistate ma, da quello che riferisce Hongyan, si parla di un altro stile di vita. Una famiglia sta per emigrare in Canada, l’altra in Giappone. Spendono in lezioni private più di quanto non paghino l’asilo: inglese, disegno, musica, matematica e danza.
Chi accetta del suo secondo figlio in arrivo è Yan Chunlong, 35 anni, proprietario di un negozio di alimentari di importazione negli hutong, gli stretti vicoli al centro di Pechino che ancora conservano l’impronta della capitale imperiale che fu. Sua moglie, Luo Fang, ha 28 anni. Dirige un’azienda ed è al sesto mese. Hanno già un figlio di quattro anni e un reddito famigliare sui quattromila euro al mese. Loro non hanno avuto dubbi. Volevano un altro figlio, «è una questione di felicità, non di denaro». Dicono però che la nuova legge ha lasciato indifferenti molti. La maggior parte dei loro amici non ha ancora figli. «Preferiscono fare carriera, e avere una vita più libera.». E ride: «Come dargli torto?».

Repubblica 15.2.16
Torna l’ansia per le Borse cinesi
Oggi riaprono dopo una settimana, attesa nervosa per il dato sull’import: potrebbe essere inferiore al previsto Occhi puntati su Draghi, in audizione al Parlamento europeo. È possibile che continui la fase di volatilità
di Vittoria Puledda


MILANO. Oggi si ricomincia, con la riapertura delle borse cinesi dopo la settimana di black out (per la festa del capodanno). Una settimana tremenda, in cui gli indici azionari hanno oscillato come un mare in tempesta, con fortissimi cali e rialzi altrettanto violenti.
La prova del nove per la Cina sarà il dato sulla bilancia commerciale di gennaio: un indicatore atteso con ansia, per misurare la forza delle importazioni (e dell’economia di Pechino). Proprio i timori di un rallentamento forse più marcato rispetto ai dati ufficiali hanno tenuto sotto scacco i mercati nelle ultime settimane, uniti al prezzo del petrolio in forte calo. Oggi nel pomeriggio qualche segnale potrebbe arrivare da Mario Draghi: il presidente della Bce è atteso in audizione al parlamento europeo (ma per le scelte di politica mometaria occorrerà aspettare marzo) mentre la seconda parte della seduta di borsa nel vecchio continente sarà priva del consueto del faro di Wall street, chiusa per festività. Certo le batoste subìte da inizio anno hanno compresso le quotazioni a volte in modo significativo. Guardando ai fondamentali, oggi Piazza affari esprime un rendimento medio delle azioni (dato dal rapporto prezzo/ dividendo) pari al 4,85%, calcolato sugli utili attesi per il 2016. «un rapporto alto - spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo - rispetto ai valori storici della nostra Borsa e ancor più rispetto al rendimento di un btp decennale, all’1,6%».
Nell’immediato è molto probabile che i mercati restino legati al prezzo del petrolio, che proprio alla fine della settimana scorsa ha fatto registrare una forte impennata (ma nel breve è difficile pensare che il miglioramento sia strutturale). È possibile quindi che si continui con una certa dose di volatilità sulle borse, fattore che alla lunga potrebbe mettere in difficoltà qualche operatore molto esposto sui derivati. Però c’è anche chi è ottimista: «Non dico che i mercati rimbalzeranno domani mattina perché un’estrema volatilità probabilmente resterà con noi per un po’, ma la mia scommessa è per azioni più alte e spread più stretti durante le prossime due settimane», scrive Erik Nielsen, capo economista globale Unicredit nella nota settimanale.

Repubblica 15.2.16
Arroganza e presunzione, Hillary ha ucciso il femminismo
di Maureen Dowd


L e giovani elettrici la bocciano e Hillary Clinton soffre il trauma del rifiuto. Le sue alter ego più giovani non sono in sintonia con la sua campagna. L’assunto alla base della pronosticata incoronazione di Hillary è andato in fumo. Nel 2008 i Clinton pensarono che Barack Obama l’avesse rapinata di un suo diritto per fare la storia prima di lei. Questa volta presumevano che le donne che avevano abbandonato Hillary per Barack le fossero debitrici. Pensavano che i democratici fossero decisi ad abbattere la seconda barriera. Hillary era convinta che esistesse un’intesa implicita per cui le sue sorelle avrebbero capito che era arrivato il momento di votare per una donna. Invece è venuto fuori che le elettrici considerano Hillary un semplice candidato, non un imperativo storico.
Sia nella campagna del 2008 che in quella odierna, Hillary è partita da una posizione di diritto acquisito, come se il suo curriculum fosse di per sé una garanzia, una prova della sua superiorità. Bernie Sanders trasmette un messaggio coniugato alla prima persona plurale: dobbiamo riprenderci il paese dalle mani di pochi privilegiati. Hillary ha un messaggio coniugato alla prima persona singolare: sono stata vittima di abusi e incomprensioni, adesso è il mio turno. Le femministe storiche schierate con Clinton non hanno evidentemente capito che le giovani sostenitrici di Sanders vivono una realtà che corrisponde al sogno femminista, in cui le scelte non sono più dettate dal genere: queste ragazze crescono sapendo che possono diventare quello che vogliono. Le aspirazioni del femminismo anni ’70 fanno parte integrante della cultura odierna. Hillary sapeva di poter contare sulla complicità delle massime esponenti femministe e della donne democratiche del Congresso. Le giovani donne però oggi giocano la partita con regole diverse. E non gradiscono che i Clinton alle regole si sentano immuni.
( Copyright New York Times News Service. Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 15.2.16
Buon anniversario compagno Gobetti
A novant’anni dalla morte dell’intellettuale torinese lettere inedite di Togliatti svelano un aspetto segreto
di Simonetta Fiori


“Il migliore” lo aveva sempre definito “parassita della cultura”. Ora invece gli chiede aiuto per la causa
Il rapporto tra i due è l’inizio della storia italiana mai finita tra tradizione marxista e pensiero liberale

Il “signor p.t.”, scritto con la minuscola. Forse non c’era nessuna malizia, ma per il diciottenne Gobetti quel leader così agguerrito era una semplice iniziale. Palmiro Togliatti l’aveva insultato pubblicamente, dandogli del «parassita della cultura», «ragazzo di ingegno», certo, ma atteggiato «a predicatore del rinnovamento morale del mondo». E lui aveva scelto di rispondergli pacatamente, perché cosa potrà interessare ai lettori che «io non sono sciocco come dice e lui così serio come crede»? Al principio i rapporti non furono facili, né sarebbe potuto andare diversamente. Schierati
su fronti diversi, marxista e liberale. E diversi quasi in tutto, tranne che in quel tratto di «cinismo misto a inquietudine » che Piero vedeva nell’avversario e anche in se stesso. In pochi anni le cose si sarebbero messe a posto. E le lettere del 1925 uscite oggi per la prima volta dal Fondo Gobetti — e di imminente pubblicazione sulla rivista
Critica Liberale di Enzo Marzo con una documentata nota di Pietro Polito — raccontano un’altra storia. Non un’amicizia ma un rapporto fondato sul reciproco rispetto, nutrito anche dalla collaborazione con Antonio Gramsci che nel secondo dopoguerra avrebbe ingenerato molti equivoci.
Ma fermiamoci un momento allo scambio epistolare del 1925, Mussolini ormai dittatore dal volto brutale. Gobetti ha già fondato tre riviste e scritto migliaia di pagine ma soprattutto da due anni dirige una casa editrice il cui logo è una scelta di campo: “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Un’opposizione tenace al fascismo pagata sulla propria pelle, tra l’arresto e le aggressioni di squadracce nere che lo lasciano ogni volta squassato. È questo l’editore ribelle a cui si rivolge Togliatti nel marzo del ’25: il tono è molto diverso, lontano dagli accenti di superiorità morale esibiti alcuni anni prima dalle pagine dell’Ordine Nuovo. Non ossequioso, ma rispettoso e anche un tantino implorante. Manca solo un anno alla morte di Gobetti — proprio oggi cade il novantesimo anniversario — e il capo comunista gli chiede di dare alle stampe un rapporto inglese sulla nuova Russia. Proposta accolta? Nel catalogo non ve n’è traccia. Ma si capisce tra le righe che il pourparler è andato avanti, con un soggiorno a Roma dell’editore torinese e un incontro mancato nel suo albergo. Nessuno dei due avrebbe cambiato idea sull’altro, mantenendosi saldi su sponde ideali differenti. Almeno fino alla scomparsa di Gobetti, morto a Parigi non ancora venticinquenne.
Dopo sarebbe stato diverso. Nel lungo dopoguerra al “rivoluzionario liberale” sarebbe toccato in sorte quel che più o meno è accaduto ad altri antifascisti stroncati dal regime e dalla guerra. Nessuno come Togliatti è stato capace di annettersi arbitrariamente destini e tradizioni lontani dalla propria. Bastò una formula — “compagno di viaggio” — e fu sua un’altra icona della tradizione azionista e liberaldemocratica. E a nulla sarebbero servite le proteste della famiglia liberale, pronta a sbandierare la professione di anticomunismo («Anticomunista perché anti-astrattista », scrive Gobetti in una lettera a Santino Caramella riferendosi alle idee astrattamente ideologiche) e il severo giudizio sulla «fallimentare esperienza marxista in Russia». E lo stesso Centro Studi Gobetti — ricorda ora Enzo Marzo — ci ha messo molto tempo prima di rendere pubbliche le carte sui rapporti con il capo comunista proprio per evitare schiacciamenti e sovrapposizioni.
Ha un senso oggi ricordare queste storie? Certo restituiscono il destino accidentato dell’altra sinistra, quella liberale laica e azionista, che ha sempre faticato nel farsi largo tra le due grandi chiese del Novecento, la comunista e la cattolica. E in anni recenti è stata bersaglio polemico di uno pseudoliberalismo di rito berlusconiamo, allergico al richiamo etico gobettiano tanto da volerlo espungere dal Pantheon dei liberali certificati. Oggi Gobetti non divide più né crea baruffa, perché è passato il tempo delle grandi scelte ideali, le diverse culture politiche ormai confluite in un indistinto neutro e incolore sul piano teorico e identitario. Però quella di Gobetti è tra le icone antifasciste che più resiste al passare del tempo, forse perché eternamente giovane, forse perché irripetibile nella sua radicalità morale e nell’impasto di ragione e sentimento, ancora capace di incidere sull’immaginario dei ragazzi ispirando romanzi e dialoghi immaginari sulla sua insaziabile volontà di vivere («Mandami tanta vita», è l’invocazione rivolta all’allora fidanzata Ada che dà il titolo al lavoro narrativo di Paolo Di Paolo).
E se un tempo si metteva al centro della scena l’organizzatore culturale e il fondatore di riviste, insomma il profilo storico-politico, oggi ad accendere l’attenzione dell’editoria è soprattutto il Gobetti più intimo, il perlustratore di orizzonti interiori, il ragazzo con «l’inquietudine di un barbaro e la sensibilità di un cinico», come crudelmente si descrive in una pagina inclusa nell’antologia appena uscita da Feltrinelli ( Avanti nella lotta, amore mio!, a cura di Di Paolo). «La storia non mi ha dato eredità di sorta», scrive alludendo alle sue modeste origini, figlio di droghieri senza cultura. «L’ambiente in cui sono vissuto non mi ha offerto comunicazioni. Non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la sono dovuta creare io. Se ho voluto capire ho dovuto vivere», annota in una confessione che è quasi un’epigrafe. Vivere per capire. E anche il privato finisce per acquistare un valore politico che regge la sfida del tempo. Vale per un diciottenne di oggi. E vale per quel coetaneo d’ingegno che quasi un secolo fa scriveva Togliatti con la minuscola.

Repubblica 15.2.16
Le lettere di Togliatti a Gobetti


La prego di esaminare la mia proposta Saluti comunisti
Roma, 13 marzo 1925 Caro Gobetti, la prego di voler esaminare la proposta che segue e darmi la sua riposta nei termini che le indico: è ella disposta a pubblicare con l’insegna della sua casa editrice una traduzione italiana del rapporto della Delegazione tradeunionista inglese sulle condizioni attuali della Russia? Naturalmente con una veste e in modo che non implichi la sua responsabilità nelle cose esposte nella relazione. Le condizioni sarebbero, per lei, le migliori; tutte le spese di stampa e diffusione a carico nostro. Nessun gravame di nessun genere per lei e la sua casa editrice la quale però dovrebbe consegnare circa un migliaio di copie a noi. La cosa è molto urgente. Se ella acconsente, le verrà inviato subito il materiale (testo e clichés). Il libro dovrebbe però apparire entro pochissimi giorni e per questo si potrebbe anche cercare di fare la composizione in città diverse da Torino. (...) Attendo fino a martedì sera il suo telegramma prima di cercare altre vie. Naturalmente insisto perché ella accetti. Credo che per lei sarebbe anche un successo. La pubblicazione ha già suscitato in Inghilterra un clamore di discussioni.
Sarà certo lo stesso in Italia. Con saluti comunisti
Palmiro Togliatti
19 marzo 1925 Caro Gobetti, per un ritardo nel ritiro della posta sono venuto al suo Albergo solo mercoledì sera, e mi hanno detto che Ella era già partito. Sono assai spiacente di questo inconveniente. Dal fatto che Ella è venuto a Roma deduco però che è disposto a stampare il libro di cui le ho parlato. Mi dia una conferma per telegramma o per espresso (…) e le spedirò subito il testo a mezzo di un compagno che viene a Torino. Con questo compagno potranno pure essere fissate le modalità della pubblicazione. Saluti cordiali
Togliatti

Repubblica 15.2.16
Jean Clair “Siamo in guerra per le immagini”
I sogni di Freud e di Leonardo il sesso e i tabù, l’ iconoclastia dell’Is

Parla il grande critico d’arte
intervista di Benedetta Craveri


È solo da qualche anno che il Museo d’Orsay si è deciso a esporre il Courbet censurato. Vedere la nostra “Origine” era proibito
Chi immaginava che ci saremmo sottomessi fino nascondere ciò che celebra la bellezza del corpo umano?
Leonardo da Vinci dormiva tredici ore per notte. Durante quei sogni vedeva i suoi quadri e le sue macchine
Il velo era anche nostro. Basti pensare ai volti della fede popolare o alla potenza suggestiva dei nudi velati e drappeggiati

PARIGI Celebre per le sue splendide mostre e per i suoi feroci pamphlet contro le imposture dell’avanguardia contemporanea, Jean Clair, non bisogna dimenticarlo, è anche un magnifico prosatore, un autentico virtuoso dello stile e della lingua, che intesse, libro dopo libro, la sua trama preziosa di ricordi, riflessioni, inquietudini. Ne “La part de l’ange” — un’espressione francese che indica la parte dovuta al sacro — ora in uscita da Gallimard, lo scrittore ha scelto la forma del diario dove a scandire il succedersi dei giorni non sono tanto gli avvenimenti esterni quanto il dipanarsi di un pensiero analogico che, a partire dai
valori dell’umanesimo, si interroga angosciosamente sul destino della civiltà occidentale. Con un arte consumata della transizione e sul filo di una straordinaria erudizione, Jean Clair spazia dall’evocazione del mondo contadino della sua infanzia alla storia dell’arte, dal significato originario delle parole all’oblio dei valori che hanno connotato nei secoli la cultura europea. Il suo libro è innanzitutto una riflessione sul rapporto fra l’immagine “che si impone” e la parola che “ci libera dalla sua ipnosi”. Come vive Jean Clair questa dialettica?
«”Guardare a lungo la quiete degli dei: ricompensa dopo il pensiero“. Non ho mai potuto leggere questo verso di Paul Valéry mentre contemplava il mare dall’alto del cimitero di Sète senza che evocasse un’immagine: dopo la parola e la fatica che la accompagna, l’immagine offre allo sguardo il riposo, il dono di un mondo divino ricomposto dopo la confusione delle parole umane. Per me l’opera d’arte è la ricompensa delle difficoltà del discorso. Permette di non pensare più».
Lei scrive di essere andato in analisi giovanissimo: è un’esperienza che ha influito sul suo rapporto con la parola?
«La psicanalisi - all’epoca in cui era ancora una disciplina comportava un esercizio singolare: bisognava affidarsi al disordine delle parole e tentare poi di ricomporle grazie a una rivelazione abbagliante, analoga a quella degli eremiti nel deserto. La regola era quella di dire tutto ciò che mi passava per la testa, ma al tempo stesso dovevo mantenere il silenzio, vigilare su di esso e proteggerlo come la sorgente inesauribile da cui sarebbero sgorgate le parole. È in questa contraddizione che si nascondeva il mistero dell’analisi».
In che modo questa “rivelazione” ha orientato le sue scelte?
«Il silenzio della pittura, l’ascolto delle “voci del silenzio”, come diceva Malraux, quello insomma che sarebbe stato il mio mestiere, ha preso il posto del silenzio della analisi che mi aveva insegnato il peso delle parole: quanto pesano e quanto valgono, ciò che dicono troppo in fretta e ciò che non dicono».
Uno dei temi ricorrenti del suo libro è il sogno: e un retaggio dell’analisi?
«Il sogno occupa un posto sempre più importante nella mia vita, ma non è quello che Freud analizza, anzi ne è agli antipodi. Freud si interessa a ciò che sfugge al sogno o dal sogno, l’indizio che indica la crepa attraverso cui il male si è insinuato. Vede il sogno come una specie di bazar, di gabinetto delle curiosità o degli orrori, una specie di letamaio dove, col favore della notte e del rilassamento della coscienza, si decompongono le nostre attività diurne e dove l’analisi può scoprire il piccolo dettaglio inquietante che è al contempo la chiave d’oro delle fiabe, la chiave dei sogni che farà girare la serratura dell’inconscio».
Invece per lei?
«Amo i sogni come amiamo i grandi racconti, ricchi di corrispondenze e perfettamente coerenti; i sogni che invece di immiserire la vita ce la restituiscono centuplicata. Ricordiamoci quel che dice Proust in Dalla parte di Swann: “Un uomo che dorme, tiene in cerchio intorno a sé, il filo delle ore, l’ordine dei mondi e degli anni e dei mondi”. Non si scende in cantina, si governa un regno. Questa potenza del sogno era quella che doveva soggiogare Leonardo da Vinci, che dormiva tredici ore per notte. Come dubitare che era durante quei sogni che “vedeva” i suoi quadri, le sue macchine, i suoi volti?»
Frequenti nel suo libro sono anche le annotazioni sull’Eros, sull’impulso sessuale maschile come esperienza misteriosa e di natura sacrale. Penso per esempio alla sua descrizione del pube femminile del celebre dipinto di Courbet, censurato giorni fa da Fecebook per il suo contenuto ritenuto “osceno”.
«È solo da qualche anno che il Museo d’Orsay si è deciso a esporre L’origine del mondo di Courbet. Il quadro era rimasto a lungo nascosto; vedere la nostra “Origine” era dunque cosa proibita. Una trentina d’anni fa l’avevo domandato in prestito per una mostra ma la mia richiesta era stata respinta col pretesto che si trattava di “un quadro mediocre”. La verità era che non si osava mostrarlo per timore di incorrere una denuncia per offesa al pudore. Oggi la situazione è cambiata, e non necessariamente per il meglio. Il sesso è onnipresente, ma questa visibilità assolutizzata non può non comportare dei profondi sconvolgimenti nella vita mentale, spirituale, etica ed estetica. Siamo entrati in un’epoca di sconvolgimenti, una nuova guerra di religione, che sarà innanzitutto una nuova guerra di immagini — a cominciare da quelle che celebrano la bellezza del corpo umano — molto più violenta delle due precedenti ondate di iconoclastia che hanno colpito l’Occidente».
Pensa all’immagine delle statue “incassate” dei musei capitolini che ha fatto il giro del mondo?
«Chi avrebbe potuto immaginare che la visita a Roma del Capo di Stato dell’Iran, potesse fare coprire le sculture dei nudi che avrebbe potuto incrociare? E questo quando in Francia e altrove imperversa la battaglia contro il velo delle donne musulmane? Come conciliare questi due atteggiamenti cosi contrari, l’uno di sottomissione all’Islam (nel senso che il Corano dà alla parola “sottomissione”) e l’altro di intolleranza gelosa e pignola di consuetudini che sono state per molti secoli anche le nostre?» È per questo che anche il tema del velo ritorna così sovente nel suo libro?
«Quello stesso velo che si vuole proibire in Occidente, è stato da noi come nell’Islam, un motivo di grande grazia e anche di erotismo. Basti pensare ai volti della fede popolare che fino alla metà del secolo scorso imponeva alle donne di portare un velo per nascondere, vale a dire rivelare la capigliatura. E all’altro estremo, abbiamo la potenza suggestiva dei nudi velati, drappeggiati, intriganti e eccitanti, come le statue di Corradini a Napoli, nella Cappella Sansevero».
L’immagine ha dunque smesso di essere un momento di pace, di pura contemplazione?
«All’alba di questa nuova guerra di religione che chiama innanzitutto in causa la potenza delle immagini, avremo di nuovo bisogno di convocare dei concili con filosofi, psichiatri, artisti, teologi, imam e preti per disarmare una violenza potenzialmente mortale per la nostra civiltà».

Corriere 15.2.16
La schiavitù reversibile
Nel Mediterraneo non erano così rari I passaggi dalle catene all’emancipazione
Salvatore Bono, in un volume pubblicato dal Mulino, sottolinea la differenza tra la situazione vigente in Europa, Nord Africa, Vicino Oriente e il servaggio dei neri nelle Americhe
Il caso di Miguel de Cervantes, prigioniero riscattato
di Paolo Mieli


A Napoli nel 1661 c’erano dodicimila schiavi: un cronista annotò che «ogni persona d’ogni stato, grado e condizione ne comprava». A Livorno ce ne furono moltissimi e nel 1686 fu tolto agli ebrei il «privilegio» di possedere schiavi musulmani di età inferiore ai sedici anni, nel timore che fosse loro impedito di convertirsi al cristianesimo. A Monaco di Baviera nel 1608 la moglie di Massimiliano I aveva una schiava turca a suo personale servizio. La regina Cristina di Svezia nel testamento del 1689 lasciava una dote alla sua «schiavetta» Cristina Alessandra. In quegli stessi anni il cardinale d’Aragona aveva un moro di Tlemcen come servitore. Uno schiavo, all’inizio del Cinquecento, lo aveva avuto anche Papa Leone X (Giovanni de’ Medici): si chiamava al-Hasan al-Wazzan, era un musulmano spagnolo. Viaggiatore al servizio del sultano di Fez, catturato dai pirati, consegnato alle prigioni di Roma, si fece cristiano e prese i due nomi del pontefice, Giovanni Leone. A lui è dedicato l’affascinante libro di Natalie Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano (Laterza), dal quale si trae conferma del fatto che la schiavitù all’epoca non era un problema: molto fu rimproverato al Papa che ebbe il primo scontro con Martin Lutero («sfacciato nepotismo, sfarzosa vita di corte, esosità insaziabile, smisurata prodigalità, politica tortuosa e incerta, irresponsabilità», è l’elenco dei rilievi fatto da Josef Gelmi nel libro I Papi , edito da Rizzoli), ma nessuno imputò a Leone X di possedere un servo «di sua proprietà».
Avere schiavi fu a lungo considerato dalla cultura europea del tutto normale e sono lì a testimoniarlo innumer evoli opere d’arte: dalle Nozze di Cana del Veronese a moltissimi altri quadri in cui schiavi e schiave di colore figurano come eleganti paggi e devoti servitori di famiglie aristocratiche. E, per restare ai Papi, non possiamo dimenticare, tra le sculture, i due schiavi di Michelangelo per la tomba di Giulio II, che dalla fine del Settecento sono esposti al Louvre.
È questo uno dei punti di partenza dell’assai interessante libro di Salvatore Bono Schiavi. Una storia mediterranea ( XVI-XIX secolo) , appena dato alle stampe dal Mulino. Libro che sottolinea le diversità tra lo schiavismo atlantico (Stati Uniti d’America, ma non solo) e quello mediterraneo. La differenza più importante sta nel carattere «reciproco» della schiavitù mediterranea. La guerra corsara, la cattura, la detenzione, l’utilizzo in vario modo di schiavi e schiave — come avevano efficacemente messo in luce Marco Lenci in Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterraneo (Carocci) e Giovanna Fiume in Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna (Bruno Mondadori) — «sono stati parimenti esercitati da una parte e dall’altra in Europa e nei Paesi islamici, sia quelli arabi che la Turchia».
A noi viene immediato ricordare i «nostri» schiavi, come, appunto, Leone l’Africano. Ma tendiamo a dimenticare quei nostri antenati europei che, come Miguel de Cervantes, furono tratti in schiavitù: l’autore del Don Chisciotte , mentre sulla galea Sol era in viaggio da Napoli alla Spagna, fu fatto prigioniero dal pascià Hasan Veneziano, che lo tenne in cattività dal 1575 al 1580, quando per lui fu pagato un riscatto dalle missioni dei trinitari fondate da San Giovanni de Matha. E Cervantes può considerarsi fortunato a paragone di quelli che ebbero i destini descritti da Oriana Fallaci nel suo libro La rabbia e l’orgoglio (Rizzoli), allorché la scrittrice si diffuse sui «crimini che fino all’alba del Milleottocento i musulmani hanno commesso lungo le coste della Toscana e nel mare Tirreno»: «Mi rapivano i nonni, gli mettevano le catene ai piedi e ai polsi e al collo, li portavano ad Algeri o a Tunisi o in Turchia, li vendevano nei bazar, li tenevano schiavi vita natural durante, gli tagliavano la gola ogni volta che tentavano di fuggire».
Ma la maggior parte di quelli che venivano catturati non subivano quel tipo di sorte. O quanto meno non la subivano per tutta la vita: dopo un periodo più o meno lungo si trovavano, come appunto Cervantes, in condizione di riacquistare la libertà. E qui va detto che l’altra caratteristica fondamentale del sistema mediterraneo — come hanno scritto Olivier Pétré-Grenouilleau in La tratta degli schiavi (Il Mulino) e Patrizia Delpiano in La schiavitù moderna (Laterza) — fu la «reversibilità», la «possibilità di recupero dello status di libertà, con il ritorno in patria o con la definitiva integrazione dall’altra parte». Le vie del ritorno alla condizione di persone libere erano molteplici e, osserva Bono, non tutte sono state ancora ben indagate. Per gli europei il riscatto sembra prevalente rispetto ad altre pratiche, sicché c’è chi ritiene opportuno parlare di captivi , poi «redenti», e non di schiavi. Le nostre società, perciò, a differenza di quella statunitense, non possono essere definite, secondo l’autore, «schiaviste», ma al massimo società «con schiavi». Reciprocità e reversibilità fanno sì che la schiavitù mediterranea appaia «fondamentalmente diversa da qu asi ogni altra». Anche se, precisa Bono, «per gli europei caduti in schiavitù il ritorno in patria, contrariamente a ciò che i più ritengono, costituiva la fortunata sorte di una minoranza e assai esiguo era il numero di turchi, maghrebini, ebrei e abitanti vari di Paesi delle altre rive mediterranee che riuscivano a rivedere la terra natale».
Per gran parte degli schiavi in Europa il destino finale è stato quello di essere integrati nelle società di adozione, «diciamo così, attraverso la conversione religiosa e la manumissione, la concessione cioè della libertà per volontà del padrone», perlopiù a seguito di un «accordo con l’interessato». Per gli europei catturati dai musulmani è stata invece «relativamente più frequente» la possibilità di essere riscattati, tanto più dalla fine del Cinquecento in poi. Per gli uni e per gli altri vi erano tuttavia anche altre possibilità di ritorno alla libertà: «lo scambio, la liberazione in un evento bellico, la fuga». Ciò che rende la «nostra» schiavitù assai diversa da quella «atlantica» che negli stessi secoli (XVI-XIX), attraverso la tratta dalle coste del continente africano, condusse milioni di neri nel Nuovo Mondo da cui era pressoché impossibile tornare indietro. Nuovo Mondo «al cui sviluppo economico essi contribuirono in modo essenziale, sicché i loro discendenti costituiscono una componente altrettanto essenziale della realtà di questi Paesi». È per questo che alcuni studiosi statunitensi hanno voluto suggerire una «analogia all’inverso» fra «white masters» e «african slaves» americani, da un lato, e dall’altro tra «white slaves» e «african o muslim masters» mediterranei. Una comparazione che a Bono appare però «del tutto infondata» per le radicali differenze che caratterizzano ogni aspetto delle due schiavitù, atlantica e mediterranea.
Ad ogni modo esiste perfino un caso di americani bianchi ridotti in schiavitù: nel 1793 oltre un centinaio di cittadini degli Stati Uniti si trovavano schiavi ad Algeri; due anni dopo si giunse a «un accordo di pace, grazie alla corresponsione da parte americana di un ingente ammontare (intorno a un milione di dollari) e all’impegno ad un piccolo tributo annuale» che restituì a quei cittadini d’oltreoceano la libertà perduta.
Questa netta distinzione tra le due schiavitù non deve, però, impedirci di cogliere un punto fondamentale, cioè che la tipologia dello schiavismo mediterraneo ha costituito il «precedente immediato» di quella atlantica. Nel nostro mondo infatti «il passaggio dalla schiavitù medievale a quella moderna si delinea con il primo arrivo di schiavi neri a Lisbona nel 1444, seguito da altri sempre più consistenti contingenti». Il Marocco fu il primo Paese del Nord Africa ad avere più schiavi neri che europei. Poi la tendenza si diffuse anche in Europa, dove si optò per i neri perché venivano giudicati migliori dei turchi o maghrebini.
Nella sua Plaza universal de todas las ciencias (1615) Cristobal Suarez de Figueroa scriveva: «Gli schiavi o sono turchi o barbareschi o negri: i due primi generi risultano di solito infedeli, mal intenzionati, ladri, ubriaconi, pieni di mille sensualità e autori di mille delitti… I negri sono di miglior literatura, più facili da trattare e, una volta addestrati, di buon rendimento».
Più complesso è il discorso sul rapporto tra schiavitù e religione. Bono accusa la storiografia di aver utilizzato ampiamente e di utilizzare tuttora i termini «cristiano» e «musulmano» (con riferimento sia ai corsari sia agli schiavi del mondo mediterraneo) al punto da indurre, anche se non intenzionalmente, «il convincimento che la diversità tra le due fedi sia stata all’origine e al fondamento del continuo stato di tensione e di guerriglia» e della conseguente cattura di schiavi. Invece, il contrasto religioso ha certamente contato nei sentimenti e nelle valutazioni di molti, a livello sia di decisioni politico-militari sia del fervore di partecipazione delle popolazioni, ma non si può ricondurre quello di cui stiamo parlando allo spirito di crociata o di jihad. Non si può e non si deve. La guerra corsara risaliva a una tradizione mediterranea antica d’oltre due millenni, dai tempi cioè in cui non esistevano né cristiani né musulmani. Dopodiché i fronti contrapposti non si dividevano sempre e in ogni dove secondo le appartenenze religiose.
Le condizioni dei cristiani nei Paesi arabi spesso furono tutt’altro che drammatiche. Il viaggiatore inglese John Braithwaite, che nel 1727-28 aveva accompagnato in Marocco l’inviato inglese John Russel, si disse molto colpito dalla libertà di culto di cui godevano gli schiavi cristiani e sottolineò come molti vivessero «meglio di quanto non avrebbero potuto aspettarsi nel loro Paese». L’americano William Shaler, console generale degli Stati Uniti ad Algeri dal 1815 al 1824, riferì che la condizione degli schiavi non era «peggiore di quella dei prigionieri di guerra in molti Paesi cristiani civilizzati». Va aggiunto che gli «schiavi cristiani», una volta tornati nei Paesi d’origine dopo un periodo di cattività presso i musulmani, dovevano preoccuparsi d’essere sospettati di avere in qualche misura ceduto e comunque di essere stati «contaminati» dall’ambiente islamico. Sicché in molti casi i cristiani si trovarono ad aver più paura dei loro correligionari che degli «infedeli».
Va detto infine che nella guerra corsara e nella schiavitù furono coinvolti anche attori e vittime che non appartenevano né all’una né all’altra fede. Che gli uni e gli altri presero e tennero come schiavi anche fedeli della loro stessa religione. E che, persino quando si convertivano, molti schiavi rimasero tali. Ciò che rendeva schiavi, nel caso di cattura, era «l’appartenenza ad un campo o all’altro, non la fede in una rivelazione o nell’altra». A Bono sembra dunque doveroso «non rendere esclusivo e insistente il riferimento a cristiani e musulmani». Qualcuno, una volta libero, scelse addirittura di restare o tornare nella terra che aveva conosciuto in catene. Il militare turco Kara Musa, a metà Cinquecento, quando rivide la terra natale dopo trent’anni di schiavitù in Polonia, non vi si ritrovò e scelse di tornare nel «Paese d’adozione». Lo stesso accadde all’intellettuale francese Thomas d’Arcos che, tornato da Algeri dove, a partire dal 1625, era stato detenuto per un qualche tempo, volle nel 1628 trasferirsi a Tunisi e farsi musulmano. Percorsi che, come è evidente, sarebbero stati inconcepibili nel contesto della schiavitù atlantica.

Corriere 15.2.16
Il rapporto tra padri e figlie è il vero vincitore di Sanremo
La canzone «Un giorno mi dirai» degli Stadio racconta la vera rivoluzione affettiva degli ultimi anni
La condizione della donna sta cambiando e gli uomini scelgono sempre di più di essere presenti in famiglia
di Aldo Cazzullo


E’ abbastanza incredibile che «vecchi arnesi» come gli Stadio vincano il Festival, battendo rapper napoletani e giovanotti dei talent. Nessuno se l’aspettava; forse perché si dedica molto tempo a penetrare il significato politico, culturale, simbolico di Sanremo, e meno ad ascoltare il testo delle canzoni. Si dibatte sull’intensa produzione dei 70 mila che hanno commentato il Festival su Twitter, e non sui dieci milioni che l’hanno semplicemente visto e discusso nelle loro case, con le loro famiglie; in particolare tra padri e figlie. Perché di un padre e di una figlia parlava la canzone degli Stadio; di cui neppure Carlo Conti si era accorto, visto che — come ha raccontato Gaetano Curreri, il leader del gruppo — l’anno scorso l’aveva scartata.
Certo, in altre occasioni Sanremo era un segnavento, un indicatore dell’aria che tirava. Nel 2004, all’apice dell’era Berlusconi, la Rai si concesse il lusso di affidare il Festival a Tony Renis, nonostante qualche problema con la giustizia («Chi non ha avuto amici criminali?» lo protesse Celentano). Nel 2011 la vittoria inattesa di un cantautore come Roberto Vecchioni, con una canzone dichiaratamente antiberlusconiana, segnò un cambio di stagione. Ma stavolta la politica non c’entra nulla.
Gli Stadio avevano vinto già la serata delle cover — che nel 2015 aveva lanciato Nek e anche quest’anno si è rivelata decisiva — con La sera dei miracoli ; e nel loro successo finale c’è un po’ di Lucio Dalla, la cui grandezza aumenta con il tempo che passa. Una mano è venuta da Franz Di Cioccio, il presidente della giuria di qualità, che ha applaudito entusiasta l’esibizione del collega e coetaneo Curreri: sulla rivalità tra artisti è prevalsa la solidarietà generazionale; fossero stati due quarantenni si sarebbero sbranati. Ma la chiave della sorpresa è il testo della canzone.
Il rapporto tra padri e figlie è una delle poche rivoluzioni riuscite della nostra epoca. La pace, il progresso infinito, la convivenza delle religioni si sono rivelati utopie; ma la condizione della donna è cambiata per sempre, si è evoluta in modo irrimediabile. E anche i padri sono cambiati. Più presenti, più responsabili, più vicini; forse anche troppo. Le nostre nonne sposavano uomini scelti dai loro padri; fino a qualche anno fa in Cina i mariti costringevano le mogli ad abortire se era in arrivo una femmina. Tutto questo è finito, o sta finendo. I padri sono felici delle loro figlie, e non hanno pudore a manifestare la loro felicità: «Un giorno ti dirò che ti volevo bene più di me», che ti amavo più di me stesso; al punto da sacrificare l’amore per un’altra donna pur di restare al tuo fianco. I padri non hanno timore di mostrarsi commossi, a costo di sconcertare le figlie. E le figlie non hanno timore a confidarsi con i padri: «Un giorno mi dirai che un uomo ti ha lasciata, e che non sai più come fare a respirare, a continuare a vivere»; «ma se era vero amore, è stato meglio comunque viverlo».
È un dialogo non facile, è un rapporto destinato a restare irrisolto. Ma rappresenta un cambiamento profondo, in una società che comincia a lasciarsi alle spalle un maschilismo atavico. C’è una ragazza nel video che gli Stadio hanno messo in rete, c’era una ragazza accanto a loro sul palco di Sanremo: «Potresti essere la figlia della canzone» ha detto Curreri a Francesca Michielin, prima ancora di sapere chi tra loro avesse vinto il Festival. E sarà la «figlia», non il «padre», a rappresentare l’Italia all’Eurovision: gli Stadio hanno valutato che Francesca avesse l’età più adatta; o forse dovevano partire per la loro meritata tournée. A noi resta l’idea di storie d’amore ancora da scrivere, o dolorosamente interrotte (come quelle raccontate da Benedetta Tobagi — Come mi batte forte il tuo cuore , splendido titolo tratto da un verso di Wislawa Szymborska — e da Sabina Rossa: Guido Rossa, mio padre ). Non è il tempo dell’eclisse dei padri; è il tempo in cui genitori e figlie non si vergognano dei loro sentimenti, in cui l’eterno inseguimento a una bambina che diventa adolescente e poi donna continuando a sfuggire non appare più una condanna, ma il sale della vita.

Corriere 15.2.16
Andrea Barbato 20 anni dopo, non basta la scelta di Rai Storia
di Aldo Grasso


Vent’anni fa moriva Andrea Barbato. Venerdì pomeriggio Rai Storia (canale 54 DTT) lo ha ricordato con alcuni suoi servizi, da quello sull’Autostrada del Sole all’intervista ai sopravvissuti di Hiroshima, e con lo speciale di Gloria De Antoni «Andrea Barbato, la sua TV», che ripercorreva la storia professionale del giornalista, intrecciata ai principali eventi degli ultimi 50 anni: dall’assassinio di Robert Kennedy, all’invasione della Cecoslovacchia, allo sbarco sulla Luna, fino ai principali avvenimenti degli anni Novanta.
Il programma della De Antoni, con la collaborazione di Oreste De Fornari, era andato in onda dieci anni fa su RaiSat Extra. Barbato era per tutti quello della «Cartolina», quello di «Va pensiero», quello del viaggio in Cina di Antonioni.
Ma era tante altre belle cose, come affettuosamente hanno ricordato Umberto Eco, Piero Angela, Renzo Arbore, Ivana Monti e altri. Negli ultimi mesi della sua vita aveva sofferto molto l’allontanamento dallo schermo, motivato da giustificazioni pretestuose se non da un offensivo silenzio da parte della Rai: «Dopo più di trent’anni di tv, la smania di video mi è passata. Ma rifiuto le furbizie e le bugie, quei “non c’è posto in palinsesto”, quando poi c’è quello che c’è. Forse, in una tv così sarebbe meglio non esserci e non protestare; ma io credo che sia giusto spiegare a chi si ricorda di me che, se non mi vede e non mi sente, deve ringraziare Letizia Moratti, Raffaele Minicucci, Luigi Locatelli e chissà chi altro». Va bene l’omaggio di Rai Storia, ma queste operazioni non si potrebbero fare un po’ meglio? È proprio necessario farle a costo zero? E dire che basterebbe poco.
Senza un minimo di spiegazione, il documentario sull’Autostrada del Sole non ci dice niente del giornalismo dell’epoca, per non parlare di quello sulla Cina. Barbato faceva una trasmissione sulla tv, «Fluff», ma com’era la sua tv? Se ti chiami Rai Storia, un po’ di storia la dovresti fare.