Corriere La Lettura 14.2.16
All’origine dell’ira
Che
cosa sono gli scoppi di collera? Si tratta di qualcosa anticamente
finalizzato alla nostra sicurezza che oggi può addirittura metterla a
repentaglio. Perché? Perché il cervello si è formato per dare
risposte rapide a situazioni pericolose, non per essere logico. Perciò
non sempre distinguiamo bene e male
di Leonardo Boncinelli
Quando
ero piccolo mio padre inveiva spesso contro i mercanti di armi — «di
cannoni», diceva lui — che riteneva essere all’origine di tutte le
guerre. A quell’epoca io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse
la biologia — l’ho scoperta solo a 25 anni! — e ancora meno la biologia
del comportamento, ma la faccenda non mi quadrava affatto. Mi pareva
semplicistica, antistorica e poco aderente all’osservazione della
ordinaria microconflittualità quotidiana di tutti contro tutti,
suscettibile di alcuni improvvisi incredibili inasprimenti. A parte il
fatto che non esiste alcun fenomeno che abbia un’unica causa, sarebbe
stato opportuno, pensavo, chiedersi se la conflittualità tra individui
non avesse anche una qualche base biologica, oltre che storica.
A
metà gennaio la rivista «Science» ha pubblicato una recensione del libro
Why we snap , cioè «Perché scattiamo. Comprendere il circuito della
collera nel nostro cervello» di R. Douglas Fields (Dutton, 2015). In
questa lunga recensione, Pascal Wallisch, psicologo dell’Università di
New York, tocca molti dei temi connessi all’argomento, a partire dalla
nostra cosiddetta razionalità e dalla nostra scarsa linearità di
comportamento. Lo studio delle dinamiche economiche assume che queste
vedano come attore principale un essere umano dotato di specifiche
qualità, che è stato convenzionalmente definito homo oeconomicus . La
caratteristica fondamentale di costui o di costei è quella di agire
sempre razionalmente e lucidamente, in modo da massimizzare il proprio
guadagno, tenendo conto delle condizioni in cui si trova a operare. Si
tratta ovviamente di una idealizzazione — come quelle di un moto in
assenza di attrito, di gas ideale e di corpo solido — utile per
impostare un’analisi dei processi economici che si osservano nelle varie
situazioni.
Le neuroscienze ci hanno insegnato però negli ultimi
trent’anni che nessuno di noi si può comportare così in ogni situazione,
non solo in pratica, ma nemmeno in teoria. Perché? Perché ciascuno di
noi possiede una sorta di «razionalità limitata», limitata per almeno
due ragioni. Perché, anche se fosse perfetta, la nostra razionalità
dovrebbe sempre fare i conti con l’interferenza del nostro onnipresente
universo emotivo, e soprattutto perché la razionalità di ciascuno di noi
è gravemente imperfetta e mostra specifiche «falle», vere e proprie
«illusioni cognitive», che ci inducono spesso a fare scelte sbagliate,
soprattutto, va detto, se si deve decidere in fretta e in condizioni di
stress.
Tanto per giocare, sottoponetevi a questo semplice
problemino, abbastanza noto e di cui s’è già scritto su «la Lettura». Un
tifoso compra insieme una felpa e un distintivo della propria squadra
preferita. Per comprare le due cose, spende 110 euro. Se la felpa è
costata 100 euro più del distintivo, quanto è costato il distintivo?
Provate a rispondere e vedrete che molti di voi daranno una risposta
sbagliata, non perché siate stupidi, ma perché il nostro cervello
funziona bene soltanto fino a un certo punto, a meno che non lo si metta
alla frusta. Cosa che spesso non si fa e che è, per esempio,
all’origine del fatto che le cose costino 4,99 euro invece che 5. E
questi non sono che alcuni esempi elementari.
Colui che ha il
merito principale di avere scoperto queste sorprendenti proprietà del
nostro cervello, Daniel Kahneman, ha ottenuto un premio Nobel per la sua
scoperta. L’andamento dell’economia mondiale degli ultimi anni, d’altra
parte, ha messo drammaticamente a nudo quanto difettosi, oltre che
improvvidamente emotivi, siano i ragionamenti di cui sono capaci anche i
migliori operatori di mercato. Considerazioni del genere sono ormai
all’ordine del giorno e ne è anche nata una nuova scienza, la
neuroeconomia.
Ma qual è il motivo per cui il ragionamento degli
individui ha tutte queste defaillance ? La risposta è semplice. Quando
il nostro cervello si è formato e perfezionato non esistevano partite di
scacchi, indovinelli logici o agenti delle assicurazioni, mentre
esisteva un enorme numero di situazioni pericolose dove era richiesta
una pronta valutazione delle condizioni ambientali e una decisione molto
spedita. La nostra mente doveva essere veloce a valutare, e capace di
decisioni tempestive, piuttosto che logicamente ineccepibili. Noi
abbiamo ereditato un cervello di questo tipo e quello usiamo anche oggi
che le condizioni esterne sono tanto diverse. Ci vorranno millenni, se
ci saranno, perché quello cambi e ci dobbiamo arrangiare con ciò che
abbiamo, ovvero un buon compromesso fra prontezza e rigore. Il fatto poi
che possediamo una matematica e perfino una logica, una disciplina nata
anzi praticamente adulta già venticinque secoli fa, deriva dal fatto
che non esiste al mondo un unico individuo, ma una moltitudine di
persone che, agendo collettivamente, riescono a sopperire ai difetti
logici di ciascuno di noi.
Se si vogliono veramente comprendere
molte delle nostre caratteristiche occorre spesso mettere la questione
in prospettiva e considerarla da un punto di vista evoluzionistico,
anche se con le dovute cautele.
Lo stesso vale per i nostri
inopinati scatti di collera, per le nostre ostilità, sorde o conclamate,
e la nostra perdurante e logorante conflittualità sociale. Negarlo
serve solamente a impedirci di comprendere e magari porre rimedio,
perché comprendere è sempre necessario anche per poter cambiare le cose e
renderle più in linea con i nostri desideri. Non basta desiderarlo,
sperarlo o prometterlo, come fanno molto spesso i promettitori di
professione, iperbolici reclamizzatori del nulla.
Anche per quanto
riguarda gli scoppi d’ira, rari fortunatamente, ma talvolta disastrosi e
spesso memorabili anche per chi vi è stato coinvolto, è possibile
individuare un’origine evolutiva, che può anche rivelare il suo volto
paradossale: qualcosa originariamente finalizzato a proteggere la nostra
sicurezza, la può mettere gravemente a rischio nel mondo di oggi, e
comunque spingerci a comportamenti inappropriati alla situazione. Nove
sembrano essere le situazioni più indicate per scatenare la nostra
collera: una minaccia per la nostra vita oppure per parti del nostro
corpo; una minaccia per il partner o altri membri della famiglia oppure
anche per il gruppo di appartenenza; insulti a noi oppure
all’ordinamento sociale; un tentativo di invadere il nostro territorio
oppure di appropriarsi di roba nostra; e infine una qualche forma di
costrizione che ci impedisca libertà d’azione. Sopravvivenza, quindi, e
integrità per noi e le persone a noi più vicine, territorialità in senso
proprio o esteso, e libertà di manovra materiale e virtuale, sono, non
sorprendentemente, le questioni sul tavolo, alle quali teniamo sopra a
tutto il resto. A queste aggiungerei almeno l’intransigenza per una
mancanza di rispetto e di considerazione, istanza molto sentita oggi in
un mondo dominato dalla conoscenza e dalla comunicazione.
Che cosa
mette in moto tutto questo? Mette in moto una serie di aree cerebrali
connesse con l’emotività, dopo una valutazione prettamente emotiva
mediata dall’amigdala e una più meditata operata dell’ippocampo. A
seguito di tutto ciò si passa o non si passa all’azione, in dipendenza
della gravità degli stimoli, della situazione complessiva e dell’indole
del soggetto implicato, il cui comportamento può anche variare da
momento a momento.
Questo è quello che accade dentro di noi. Su
questo va poi esercitata un’eventuale azione inibitoria da parte della
corteccia cerebrale e della nostra cosiddetta razionalità, sulla base
della nostra indole e dell’educazione che abbiamo ricevuto. La cosa può
magari essere egregiamente arginata centinaia di volte e manifestarsi
più o meno clamorosamente soltanto una o due volte. Spesso senza una
concreta possibilità di prevedere. Oppure restare a «bollire in pentola»
per anni senza manifestazione alcuna e magari «esplodere»
all’improvviso, con atti concreti di ostilità o con decisioni
altrettanto inconfondibili verso questo o quello oppure questi o quelli,
anche mai incontrati di persona.
Il quadro è essenzialmente
questo, e non c’è dubbio che contrasti un po’ con la concezione tipica
della nostra cultura, figlia della filosofia occidentale e riflessa
nelle norme del diritto, che considerano l’uomo come capace di
distinguere chiaramente il bene dal male e quindi pienamente
responsabile delle proprie azioni e dei propri errori.
L’autore fa
notare però che molte di queste idee sono state elaborate per via
speculativa secoli e secoli prima dello sviluppo delle moderne
neuroscienze. Viene quasi da pensare che per molta filosofia valga
quanto abbiamo detto di certe istanze biologiche: erano fondamentali e
di grande utilità una volta; possono essere di dubbia utilità o anche
d’intralcio oggi. Un po’ di quello che ci hanno insegnato le
neuroscienze potrebbe essere perciò proficuamente incorporato nelle
nostre concezioni correnti.
Corriere La Lettura 14.2.16
L’ambiente «innesca» i geni. Così possono esplodere comportamenti antisociali
Le violenze sui bambini e le violenze da grandi
di Giuseppe Remuzzi
Geni
o ambiente? Il solito problema mai risolto che questa volta si applica a
chi ha subito violenza da piccolo. Questi bambini, dall’adolescenza in
poi possono avere comportamenti antisociali e qualcuno diventa persino
aggressivo o commette dei crimini. Non tutti però, molti di loro avranno
una vita normale, socievoli o meno si capisce, ma come tutti gli altri.
Perché
qualcuno di loro sì e qualcuno no? Non lo sa nessuno. Potrebbe
dipendere dai geni di cui si sa qualcosa ma non tutto, oppure
dall’ambiente, dai genitori per esempio o dalle persone che frequentano o
dalla scuola e dalle possibilità economiche. Come orientarsi?
Provate
a chiedere a un genetista, vi dirà quasi sicuramente che tutto dipende
dal Dna; poi fate la stessa domanda a uno psicologo, vi risponderà che è
tutta questione di ambiente, quello in cui questi ragazzi sono
cresciuti. Insomma siete al punto di prima, chi ha ragione? Tutti e due
almeno un po’. Il fatto è che per rispondere a domande così bisognerebbe
aver studiato il problema in modo molto più approfondito di come è
stato fatto finora. Ci vorrebbero dati su varie popolazioni di ragazzi e
si dovrebbero poter confrontare quelli che hanno avuto un’infanzia
felice con chi invece ha subito violenza e il comportamento di questi
ragazzi poi andrebbe seguito nel tempo e lo si dovrebbe poter fare per
un periodo abbastanza lungo. Difficile, ma non impossibile, tanto che
ricercatori del Canada — il lavoro è pubblicato su «The British Journal
of Psychiatry» di questi giorni — ci sono riusciti. Hanno preso in esame
più di tremila ragazzi, la maggior parte di loro con una vita del tutto
normale fin da piccoli, ma c’era anche chi aveva avuto un’infanzia
difficile. L’obiettivo di tutto questo poi era di studiare l’influenza
dei geni sul comportamento che i ragazzi avrebbero avuto negli anni
successivi. I ricercatori non potevano certo studiare l’intero genoma —
almeno 30 mila geni con interazioni estremamente articolate tra loro e
sistemi di regolazione che rendono tutto ancora più complicato — perché
mettere in rapporto una o più alterazioni genetiche con diversi
comportamenti è più difficile che cercare l’ago nel pagliaio. Così hanno
fatto riferimento a un lavoro precedente pubblicato su «Science» da un
gruppo di psichiatri inglesi, americani e neozelandesi che aveva già
dimostrato come i comportamenti antisociali di chi aveva subito violenza
da piccolo dipendevano soprattutto da un gene che presiede alla sintesi
di una proteina: monoaminossidasi A (MAOA) — si tratta di un enzima che
degrada noradrenalina, serotonina e dopamina, ormoni che funzionano
come «neurotrasmettitori», aiutano cioè i neuroni a dialogare fra loro e
in questo modo governano emozioni, tono dell’umore ma anche
depressione, rabbia e tanto d’altro.
Una volta deciso di
concentrarsi su quel gene, il resto diventava più facile. Si trattava di
mettere in rapporto certe variazioni (i medici dicono polimorfismi) del
gene MAOA con il comportamento dei ragazzi nel tempo confrontando chi
aveva subito violenza da piccolo con gli altri.
La prima
informazione che viene fuori da questo studio — e non è di poco conto — è
che essere esposti a violenza da piccoli aumenta davvero la probabilità
di sviluppare con il tempo una personalità antisociale fino ad
arrivare, per qualcuno di questi, a comportamenti aggressivi, in
famiglia per esempio o con il partner. Fin qui non c’è niente di nuovo e
ci si poteva arrivare con il buon senso, ma il rigore con cui è stato
condotto questo studio e il tempo di osservazione così prolungato ci
consentono oggi di avere qualche certezza in più.
Un’altra
informazione importante che emerge dallo studio canadese è che la
variazione del gene MAOA, proprio quello identificato più di dieci anni
fa su «Science», influenza in modo importante l’eventuale comportamento
antisociale di chi ha subito violenza da piccolo. Questo polimorfismo ce
l’ha il 30 per cento della popolazione e sono proprio i portatori di
questa variazione ad avere alla lunga le maggiori difficoltà di rapporto
con gli altri.
Ma l’informazione forse più importante che emerge
da questo studio è che la variazione genetica da sola non basta a
scatenare comportamenti antisociali. L’effetto negativo dell’alterazione
genetica sul comportamento si esprime solo in contesti molto
particolari che configurano di fatto circostanze ambientali sfavorevoli.
Così la domanda che c’eravamo posti all’inizio (vale per questo ma per
tantissime altre condizioni in cui ci si interroga sull’influenza dei
geni rispetto all’ambiente) andrebbe posta in un altro modo: «Com’è che
l’ambiente può modificare l’espressione o la funzione di certi geni?».
Più si studia e più ci si rende conto che non ci sono comportamenti che
dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente. Ci sono
piuttosto predisposizioni genetiche che consentono in circostanze
ambientali particolari di sviluppare certi comportamenti piuttosto che
altri. Ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa
influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche,
l’espressione di certi geni e questo si traduce in comportamenti diversi
a seconda delle circostanze.
Insomma, nel caso dei bambini che
hanno subito violenza da piccoli non bastano i geni per sviluppare
comportamenti antisociali e altre forme di labilità psichica: ci
vogliono circostanze ambientali sfavorevoli. Il termine «ambiente» però è
un po’ vago. Il passo successivo rispetto allo studio del «British
Journal of Psychiatry» sarà quello di capire quali sono queste
circostanze ambientali sfavorevoli e come si possono prevenire i
comportamenti antisociali ed eventualmente aggressivi. E non è solo una
curiosità; il giorno che riusciremo a capirlo la vita di questi ragazzi
potrebbe cambiare.
Corriere La Lettura 14.2.16
Due ipotesi. Predatori o impulsivi
di Giancarlo Dimaggio
Lo
farà ancora? Di fronte alla violenza è l’unica domanda che mi
interessa. Chi ha picchiato, rubato, stuprato, ucciso recidiverà? La
sfida è a tre livelli: prevedere, prevenire e curare. È di quelle
responsabilità che fanno tremare le vene dei polsi. Distinguerò tra un
ragazzo geloso e un vero stalker? Terrò in carcere un soggetto che
invece, se aiutato, sarebbe libero dall’impero della rabbia? Consiglierò
la libertà di un uomo che con quasi certezza tornerà alla violenza? I
miei strumenti saranno capaci di cambiare quelli la cui aggressività può
essere controllata? Lontani dal seminare certezze, abbiamo conoscenze
da offrire. La prima: si può, grosso modo, classificare il comportamento
aggressivo in premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è
deliberata, eseguita anche a freddo. È predatoria: l’obiettivo è
garantirsi risorse. Denaro, status, partner sessuali. Si attiva perché
c’è una preda in vista, tipo una ragazza desiderabile. Oppure perché un
pericolo minaccia i propri possedimenti. Mi hai sfidato? Vuoi sottrarmi
la donna, controllare il territorio in cui spaccio? Peggio per te, devo
sottometterti. Con ogni mezzo. Come diceva Pablo Escobar, il boss del
cartello di Medellín ritratto nel telefilm Narcos : «Plata o plomo».
Soldi o piombo. L’aggressore premeditato corrisponde quasi del tutto al
profilo dello psicopatico, personalità a sangue freddo, incapace di
rimorso, disinteressato al dolore degli altri. Siamo chiari: per questo
tipo di personalità, gli strumenti di cura sono spuntati, inutile
provarci. In sua presenza, l’obiettivo è proteggere la comunità. Allo
stato attuale delle conoscenze l’idea che si debba tentare di
riabilitarla è moralismo d’accatto, il prezzo lo pagano le vittime
future. Altra storia è l’aggressione impulsiva, lì il terapeuta può
agire. Con Patrizia Velotti, curatrice del libro Comprendere il Male (il
Mulino), ho svolto una ricerca pubblicata su «Comprehensive
Psychiatry». Emergevano due profili di comportamento antisociale. Il
primo: gli aggressivi di natura. La loro violenza è indipendente dalla
capacità di osservare il proprio animo. Predatori, potenziali
psicopatici. Il secondo: persone con minor tasso di aggressività, che
tendevano al comportamento antisociale soprattutto in presenza di scarse
capacità di osservarsi: tecnicamente le chiamiamo bassa
mentalizzazione, metacognizione o mindfulness . Come funziona? Semplice:
subiscono un torto. Gli va il sangue al cervello e aggrediscono, senza
pensare. È il profilo dell’aggressore impulsivo. Ma, tra minaccia
percepita e attacco, la mente ha un tempo di latenza, in cui si può
inserire lo psicoterapeuta. Li si porti allora a soffermarsi sul dolore
provato prima di aggredire l’altro e, quando lo intravedono, li si aiuti
a cercare altre strade per placarlo. Possono capire che il torto non
era grave, che la mancanza di attenzione della compagna non era
un’offesa irreparabile e, invece di reagire con violenza, è possibile
dialogare. Scoprono che quella ferita si può lenire, l’aggressione
diventa superflua.