lunedì 15 febbraio 2016

«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Repubblica Cult 14.2.16
Romano LuperiniI ricordi del grande letterato
“Ho vissuto per fare la pace con mia madre e mio padre”
«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Il rapporto ambivalente con la famiglia, la delusione politica e intellettuale, gli anni di analisi, la malattia
colloquio con Antonio Gnoli


Non pensavo che Romano Luperini, critico letterario di grande meticolosità e intuito, legato a lungo a una tradizione marxista, fosse stato un uomo diviso. Spaccato e come irriconciliato alla vita. Mi ci fa riflettere il suo romanzo La rancura, intriso di motivi biografici e attraversato da una profonda sofferenza. Scopro che la “rancura”, in un verso di Montale, segnala l’aspra relazione tra un padre e un figlio. Ed è quanto di più avvolgente e drammatico troviamo nella storia di Luperini. Mentre lo incontro mi soffermo a guardare il volto. La prima spaccatura è lì, su quella superfice bella e leggermente irregolare. Tagliata all’altezza della bocca da una innaturale e lieve smorfia: «È il risultato di un’operazione alla carotide, qualcosa che fu presa in tempo e ha lasciato questa traccia. Mi dissero: avrà problemi nel parlare, ma reimparerà a deglutire. È accaduto il contrario: ingerisco con difficoltà il cibo, ma parlo abbastanza bene».
Come ha reagito?
«Impari. L’ostinazione negli esercizi. Il sacrificio. Parli con il tuo corpo in maniera diversa. Sei più circospetto. Disincantato. Prendi i giorni per quello che sono: segmenti di 24 ore».
Quando è iniziato lo strazio?
«Circa tre anni fa. Oggi, mi pare una strana avventura. Alla base tra l’altro del romanzo che ho scritto».
Ero sorpreso, infatti, che lei saggista e studioso di letteratura si fosse cimentato con il romanzo.
«Ne avevo già scritto uno. Ma questo va a toccare aspetti della mia vita molto profondi. La rancura è nato grazie anche al rapporto con una psicologa. Mi sembrava che tutto il mondo si stesse sgretolando e io chiuso nel mio fortino di morte guardavo impotente ciò che mi accadeva. Poi arriva questa carta di riserva. Impensata. E ho scritto, convinto che dovessi farlo. Per me, la mia storia, la vita che mi restava».
In questa sua storia è fondamentale la presenza di suo padre.
«Sì, lo è».
Dolorosa e difficile.
«Diciamo soprattutto ambivalente».
Nel senso?
«Di una grande ammirazione verso quest’uomo e al tempo stesso un disprezzo o meglio un patimento che da bambino mi afferrava alla gola».
Cosa pativa esattamente?
«Sospettai, ingiustamente, che avesse delle mire nei riguardi della mia sorellastra».
Pensò che la molestasse?
«Pensai questo, sbagliando. Lo dissi alla mamma e alla fine si chiarì che l’atteggiamento di mio padre era solo quello di una persona che voleva avere un controllo totale sui figli e sulla moglie. Mi sono trascinato a lungo un senso di colpa, per quello che dissi».
Chi era suo padre?
«Era stato un grande comandante partigiano. Aveva combattuto nelle zone di confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Divenne una sorta di figura leggendaria. Amata e temuta. E quando la guerra finì tornò al suo lavoro di maestro elementare. La vita civile non lo aiutò».
Perché?
«Troppo distante dal mondo che aveva vissuto, dagli ideali immaginati, dal pericolo corso. Eravamo nella Lucca democristiana degli anni ‘50. Mio padre si sentiva come un animale in gabbia. Viveva le giornate con il solo ossessivo ricordo di ciò che era stato».
I vostri rapporti com’erano?
«Facevo le elementari nella stessa scuola dove insegnava. La mattina uscivamo assieme. Mi teneva per mano. Io facevo resistenza. Non andavo volentieri a scuola. Mi sentivo rapito da mia madre. A volte vomitavo. E lui strattonava. “Non voglio fare tardi, per colpa tua”, diceva. Un giorno mi fece vedere una pistola Mauser. L’aveva tolta a un tedesco e conservata, con le pallottole. La smontò e rimontò davanti ai miei occhi. Poi mormorò: perché non mi sparo?».
Nel romanzo muore suicida.
«Nella vita morì di infarto. Per il suo funerale arrivarono due camion pieni di vecchi partigiani istriani e sloveni. Viaggiarono tutta la notte per dargli l’estremo saluto. C’era anche Mario Abram, il commissario politico della brigata, di cui mio padre era stato comandante militare. Tenne la commemorazione. Alcuni piansero e compresi la grandezza di quell’uomo che non si era rassegnato al nuovo corso».
Lei cosa faceva?
«Insegnavo all’università e uscivo da una grossa delusione politica. Ero smarrito. Decisi di entrare in analisi».
Con chi?
«Con Giovanni Jervis. Mio padre morì durante una di queste sedute. E la sua scomparsa si trasformò nell’elaborazione di un lutto. Ricordo il mio primo incontro con Jervis. Gli dissi: sono qui da lei perché ho un problema grande quanto una casa. Quale? Mi chiese. Mio padre, risposi. E in seguito scoprii che il problema vero era mia madre».
Lo scoprì esattamente in che senso?
«Nel senso che mi accorsi di aver vissuto sempre mio padre attraverso mia madre e i suoi problemi. Era una donna straordinaria, capace di colpevolizzarmi e di trasformare la sua debolezza in forza. Riuscì a condizionarmi».
Ne parla senza amarezza.
«Siamo tutti più o meno vittime dei nostri ruoli. Forse scelsi di fare politica anche per reagire a questa condizione familiare: Divenni comunista. Mio padre si incazzò. Mi disse tu non sai quanto male hanno fatto i comunisti»
Mi scusi ma non era un partigiano legato alle brigate di Tito?
«Quella fu la lotta che si trovò a combattere. E restò sempre fedele a quegli uomini con cui aveva rischiato la vita. Ma aveva ideali politici socialisti. Ed è la ragione per cui non condivise le mie scelte».
Le sue scelte da dove nascevano?
«C’era stato il Sessantotto, sembrò un modo per inventarsi una nuova vita».
E invece?
«Tra la politica e il gioco finì col prevalere un modo antiquato di intendere i rapporti di forza».
Nel romanzo c’è anche la figura di Vittorio Foa.
«Siamo stati amici e abbiamo creduto nelle stesse cose, nello stesso bisogno di libertà e giustizia».
Cosa non ha funzionato? A un certo punto Foa dice: abbiamo sbagliato tutto.
«Avevamo sopravvalutato il momento della soggettività politica, senza comprendere che la politica si faceva altrove».
Cosa vuol dire essere sconfitti?
«Fu lo smarrimento. Improvvisamente mi sentii così agli inizi degli anni Ottanta: sembravo l’ultimo giapponese che non aveva capito che la guerra era finita. E la cosa era tanto più comica quanto più in giro era chiaro il riposizionamento».
Ossia?
«I nostri intellettuali improvvisamente si scoprirono quasi tutti nicciani, heideggeriani, lacaniani. Danzanti. Era un gran parlare del pensiero debole. Compiaciuti nella propria debolezza».
Allude a Gianni Vattimo?
«Lui fu l’abile cantore del nuovo corso. Nel 1984, durante un convegno a Palermo, alcuni di noi si trovarono schiacciati dall’imperante misticismo».
Alcuni chi?
«Con me c’erano Edoardo Sanguineti, Francesco Leonetti e, mi pare, Giancarlo Ferretti. Venimmo isolati in mezzo a 400 persone che ci impedirono di parlare. Capisce? Ai loro occhi eravamo vecchi e superati. Uno di questi, uno dei poeti “innamorati”, mi pare fosse Milo De Angelis, minacciò di picchiarmi. Il giorno dopo si scusò. Ma questo era il clima».
Perché ha scelto di occuparsi di letteratura italiana?
«Potrei risponderle perché mi piaceva. In realtà anche qui c’entra mio padre. Era stato amico di Romano Bilenchi e credo che queste frequentazioni fiorentine abbiano influito sulle mie scelte. Mi sono anche occupato di letteratura europea e non ho disdegnato di insegnare in America».
Tuttavia, il suo insegnamento si è svolto per larga parte all’Università di Siena.
«Sì vi arrivai nel 1972. Lo stesso anno, o giù di lì, in cui giunse Franco Fortini».
Che ricordo ha di lui?
«Contraddittorio. Per un verso, era un personaggio affascinante. In grado di dire cose intelligenti e puntuali; dall’altro, sembrava posseduto da un’ingenuità narcisistica. O si era con lui o contro di lui. La sua irascibilità poteva sfiorare la violenza fisica. Soffriva di un certo complesso di persecuzione. Ma restò un intellettuale di prim’ordine. Come dire: un’intelligenza pura negata da scatti di collera. Era per carattere agli antipodi del mio amico Paolo Volponi».
Era l’opposto in che senso?
«Aveva passioni positive e un amore sconfinato per la natura. Un giorno venne a trovarmi a casa e vedendo un’enorme pianta di rosmarino, l’abbracciò. Era anche esperto di storia dell’arte. Lo portai una volta a Volterra per vedere La deposizione di Rosso Fiorentino. Cominciò a parlare del dipinto e si formò attorno a lui una piccola folla, rapita dalle sue considerazioni. Concluse dicendo che il manierismo aveva anticipato il Novecento».
Come scrittore che giudizio ne dà?
«Ha sbagliato qualche libro, me ne ha fatti di bellissimi. Le mosche del capitale è un romanzo che rimane ».
Con chi altri si vedeva allora?
«Una frequenza importante fu con Ferruccio Masini, grande germanista. Un uomo affabile e critico notevole di Nietzsche. Era un sostenitore dell’omeopatia. Quando si ammalò di cancro provò a curarsi con i sistemi naturali. Purtroppo non funzionarono».
C’era anche Mario Tronti che insegnava a Siena.
«È vero, uomo intelligente. Di tutto il gruppo operaista il più sagace e serio. Se penso a Toni Negri e al suo dannunzianesimo politico, Tronti mi appare come una stella di prima grandezza. Ma anche lui mi sembra sia finito a studiare i profeti. Della vecchia guardia materialistica vedevo volentieri Sebastiano Timpanaro. Non poteva insegnare perché non era in grado di parlare davanti a più di due persone. E per questo, uno dei più grandi filologi del ‘900, si mise a fare il correttore di bozze».
George Steiner, affascinato dalla sua storia, gli dedicò un romanzo.
«Cosa che Timpanaro non gradì. Gli parve una caricatura. Gli suggerii di tentare con l’analisi. Ma era troppo vecchio, si limitò a scrivere un saggio sul lapsus freudiano».
Quando iniziò a fare analisi?
«Nel 1978, nel pieno degli anni di piombo. E l’ho portata avanti per cinque anni».
Che cos’è la guarigione?
«Non esiste. Freud parlò di destino. Beninteso non quello dei greci, ma il saper riconoscere la spinta della propria vita. La corrente che ti attraversa. La guarigione è questo riconoscimento».
Lei l’ha trovata questa corrente?
«Penso di sì. Quando morì Jervis il mondo mi parve nuovamente crollarmi addosso. Ma Johnny, così gli amici lo chiamavano, aveva saputo creare basi solide per la mia psiche».
L’impressione che si ricava è che lei sia un uomo che ha attraversato la durezza dell’ideologia e la fragilità della vita.
«Mi riconosco e non rifiuto la fragilità».
Cosa significa accettarla?
«Sapere che il tuo destino è questo e la fragilità vi partecipa. Bisogna imparare a regredire. La persona matura non ha paura di mostrarsi fragile. È una lezione che mi ha trasmesso Jervis. Rischiai di vanificarla dopo la malattia. Ero sull’orlo della morte. Lasciai l’università. Una parte di me non esisteva più. Poi, ancora una volta, ne sono uscito. Riemerso».
Grazie al romanzo?
«Anche, ma non solo. Giunto in tarda età mi sento un autore avventizio».
In fondo tutta la sua vita è un tentativo di ricomporre l’immagine di una famiglia che lei ha vissuto in modo frantumato.
«È probabile che volessi ricomporre quelle fratture. Un giorno frugando tra le carte di mio padre vidi sulla mensola una foto che non avevo mai notato. Dietro c’era la data: dicembre 1943. Nella foto la mamma è seduta in mezzo a un campo, mentre io bambino le bacio la guancia. Era una foto che lei gli aveva inviato, durante la guerra. In seguito mio padre la incorniciò e la tenne come un reperto prezioso. Ecco, penso che lì, nascosto nel bianco e nero, ci fosse il desiderio di una ricomposizione familiare».