«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Repubblica Cult 14.2.16
Romano LuperiniI ricordi del grande letterato
“Ho vissuto per fare la pace con mia madre e mio padre”«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Il rapporto ambivalente con la famiglia, la delusione politica e intellettuale, gli anni di analisi, la malattia
colloquio con Antonio Gnoli
Non
pensavo che Romano Luperini, critico letterario di grande meticolosità e
intuito, legato a lungo a una tradizione marxista, fosse stato un uomo
diviso. Spaccato e come irriconciliato alla vita. Mi ci fa riflettere il
suo romanzo La rancura, intriso di motivi biografici e attraversato da
una profonda sofferenza. Scopro che la “rancura”, in un verso di
Montale, segnala l’aspra relazione tra un padre e un figlio. Ed è quanto
di più avvolgente e drammatico troviamo nella storia di Luperini.
Mentre lo incontro mi soffermo a guardare il volto. La prima spaccatura è
lì, su quella superfice bella e leggermente irregolare. Tagliata
all’altezza della bocca da una innaturale e lieve smorfia: «È il
risultato di un’operazione alla carotide, qualcosa che fu presa in tempo
e ha lasciato questa traccia. Mi dissero: avrà problemi nel parlare, ma
reimparerà a deglutire. È accaduto il contrario: ingerisco con
difficoltà il cibo, ma parlo abbastanza bene».
Come ha reagito?
«Impari.
L’ostinazione negli esercizi. Il sacrificio. Parli con il tuo corpo in
maniera diversa. Sei più circospetto. Disincantato. Prendi i giorni per
quello che sono: segmenti di 24 ore».
Quando è iniziato lo strazio?
«Circa tre anni fa. Oggi, mi pare una strana avventura. Alla base tra l’altro del romanzo che ho scritto».
Ero sorpreso, infatti, che lei saggista e studioso di letteratura si fosse cimentato con il romanzo.
«Ne
avevo già scritto uno. Ma questo va a toccare aspetti della mia vita
molto profondi. La rancura è nato grazie anche al rapporto con una
psicologa. Mi sembrava che tutto il mondo si stesse sgretolando e io
chiuso nel mio fortino di morte guardavo impotente ciò che mi accadeva.
Poi arriva questa carta di riserva. Impensata. E ho scritto, convinto
che dovessi farlo. Per me, la mia storia, la vita che mi restava».
In questa sua storia è fondamentale la presenza di suo padre.
«Sì, lo è».
Dolorosa e difficile.
«Diciamo soprattutto ambivalente».
Nel senso?
«Di
una grande ammirazione verso quest’uomo e al tempo stesso un disprezzo o
meglio un patimento che da bambino mi afferrava alla gola».
Cosa pativa esattamente?
«Sospettai, ingiustamente, che avesse delle mire nei riguardi della mia sorellastra».
Pensò che la molestasse?
«Pensai
questo, sbagliando. Lo dissi alla mamma e alla fine si chiarì che
l’atteggiamento di mio padre era solo quello di una persona che voleva
avere un controllo totale sui figli e sulla moglie. Mi sono trascinato a
lungo un senso di colpa, per quello che dissi».
Chi era suo padre?
«Era
stato un grande comandante partigiano. Aveva combattuto nelle zone di
confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Divenne una sorta di figura
leggendaria. Amata e temuta. E quando la guerra finì tornò al suo lavoro
di maestro elementare. La vita civile non lo aiutò».
Perché?
«Troppo
distante dal mondo che aveva vissuto, dagli ideali immaginati, dal
pericolo corso. Eravamo nella Lucca democristiana degli anni ‘50. Mio
padre si sentiva come un animale in gabbia. Viveva le giornate con il
solo ossessivo ricordo di ciò che era stato».
I vostri rapporti com’erano?
«Facevo
le elementari nella stessa scuola dove insegnava. La mattina uscivamo
assieme. Mi teneva per mano. Io facevo resistenza. Non andavo volentieri
a scuola. Mi sentivo rapito da mia madre. A volte vomitavo. E lui
strattonava. “Non voglio fare tardi, per colpa tua”, diceva. Un giorno
mi fece vedere una pistola Mauser. L’aveva tolta a un tedesco e
conservata, con le pallottole. La smontò e rimontò davanti ai miei
occhi. Poi mormorò: perché non mi sparo?».
Nel romanzo muore suicida.
«Nella
vita morì di infarto. Per il suo funerale arrivarono due camion pieni
di vecchi partigiani istriani e sloveni. Viaggiarono tutta la notte per
dargli l’estremo saluto. C’era anche Mario Abram, il commissario
politico della brigata, di cui mio padre era stato comandante militare.
Tenne la commemorazione. Alcuni piansero e compresi la grandezza di
quell’uomo che non si era rassegnato al nuovo corso».
Lei cosa faceva?
«Insegnavo all’università e uscivo da una grossa delusione politica. Ero smarrito. Decisi di entrare in analisi».
Con chi?
«Con
Giovanni Jervis. Mio padre morì durante una di queste sedute. E la sua
scomparsa si trasformò nell’elaborazione di un lutto. Ricordo il mio
primo incontro con Jervis. Gli dissi: sono qui da lei perché ho un
problema grande quanto una casa. Quale? Mi chiese. Mio padre, risposi. E
in seguito scoprii che il problema vero era mia madre».
Lo scoprì esattamente in che senso?
«Nel
senso che mi accorsi di aver vissuto sempre mio padre attraverso mia
madre e i suoi problemi. Era una donna straordinaria, capace di
colpevolizzarmi e di trasformare la sua debolezza in forza. Riuscì a
condizionarmi».
Ne parla senza amarezza.
«Siamo tutti più o
meno vittime dei nostri ruoli. Forse scelsi di fare politica anche per
reagire a questa condizione familiare: Divenni comunista. Mio padre si
incazzò. Mi disse tu non sai quanto male hanno fatto i comunisti»
Mi scusi ma non era un partigiano legato alle brigate di Tito?
«Quella
fu la lotta che si trovò a combattere. E restò sempre fedele a quegli
uomini con cui aveva rischiato la vita. Ma aveva ideali politici
socialisti. Ed è la ragione per cui non condivise le mie scelte».
Le sue scelte da dove nascevano?
«C’era stato il Sessantotto, sembrò un modo per inventarsi una nuova vita».
E invece?
«Tra la politica e il gioco finì col prevalere un modo antiquato di intendere i rapporti di forza».
Nel romanzo c’è anche la figura di Vittorio Foa.
«Siamo stati amici e abbiamo creduto nelle stesse cose, nello stesso bisogno di libertà e giustizia».
Cosa non ha funzionato? A un certo punto Foa dice: abbiamo sbagliato tutto.
«Avevamo sopravvalutato il momento della soggettività politica, senza comprendere che la politica si faceva altrove».
Cosa vuol dire essere sconfitti?
«Fu
lo smarrimento. Improvvisamente mi sentii così agli inizi degli anni
Ottanta: sembravo l’ultimo giapponese che non aveva capito che la guerra
era finita. E la cosa era tanto più comica quanto più in giro era
chiaro il riposizionamento».
Ossia?
«I nostri intellettuali
improvvisamente si scoprirono quasi tutti nicciani, heideggeriani,
lacaniani. Danzanti. Era un gran parlare del pensiero debole.
Compiaciuti nella propria debolezza».
Allude a Gianni Vattimo?
«Lui
fu l’abile cantore del nuovo corso. Nel 1984, durante un convegno a
Palermo, alcuni di noi si trovarono schiacciati dall’imperante
misticismo».
Alcuni chi?
«Con me c’erano Edoardo Sanguineti,
Francesco Leonetti e, mi pare, Giancarlo Ferretti. Venimmo isolati in
mezzo a 400 persone che ci impedirono di parlare. Capisce? Ai loro occhi
eravamo vecchi e superati. Uno di questi, uno dei poeti “innamorati”,
mi pare fosse Milo De Angelis, minacciò di picchiarmi. Il giorno dopo si
scusò. Ma questo era il clima».
Perché ha scelto di occuparsi di letteratura italiana?
«Potrei
risponderle perché mi piaceva. In realtà anche qui c’entra mio padre.
Era stato amico di Romano Bilenchi e credo che queste frequentazioni
fiorentine abbiano influito sulle mie scelte. Mi sono anche occupato di
letteratura europea e non ho disdegnato di insegnare in America».
Tuttavia, il suo insegnamento si è svolto per larga parte all’Università di Siena.
«Sì vi arrivai nel 1972. Lo stesso anno, o giù di lì, in cui giunse Franco Fortini».
Che ricordo ha di lui?
«Contraddittorio.
Per un verso, era un personaggio affascinante. In grado di dire cose
intelligenti e puntuali; dall’altro, sembrava posseduto da un’ingenuità
narcisistica. O si era con lui o contro di lui. La sua irascibilità
poteva sfiorare la violenza fisica. Soffriva di un certo complesso di
persecuzione. Ma restò un intellettuale di prim’ordine. Come dire:
un’intelligenza pura negata da scatti di collera. Era per carattere agli
antipodi del mio amico Paolo Volponi».
Era l’opposto in che senso?
«Aveva
passioni positive e un amore sconfinato per la natura. Un giorno venne a
trovarmi a casa e vedendo un’enorme pianta di rosmarino, l’abbracciò.
Era anche esperto di storia dell’arte. Lo portai una volta a Volterra
per vedere La deposizione di Rosso Fiorentino. Cominciò a parlare del
dipinto e si formò attorno a lui una piccola folla, rapita dalle sue
considerazioni. Concluse dicendo che il manierismo aveva anticipato il
Novecento».
Come scrittore che giudizio ne dà?
«Ha sbagliato qualche libro, me ne ha fatti di bellissimi. Le mosche del capitale è un romanzo che rimane ».
Con chi altri si vedeva allora?
«Una
frequenza importante fu con Ferruccio Masini, grande germanista. Un
uomo affabile e critico notevole di Nietzsche. Era un sostenitore
dell’omeopatia. Quando si ammalò di cancro provò a curarsi con i sistemi
naturali. Purtroppo non funzionarono».
C’era anche Mario Tronti che insegnava a Siena.
«È
vero, uomo intelligente. Di tutto il gruppo operaista il più sagace e
serio. Se penso a Toni Negri e al suo dannunzianesimo politico, Tronti
mi appare come una stella di prima grandezza. Ma anche lui mi sembra sia
finito a studiare i profeti. Della vecchia guardia materialistica
vedevo volentieri Sebastiano Timpanaro. Non poteva insegnare perché non
era in grado di parlare davanti a più di due persone. E per questo, uno
dei più grandi filologi del ‘900, si mise a fare il correttore di
bozze».
George Steiner, affascinato dalla sua storia, gli dedicò un romanzo.
«Cosa
che Timpanaro non gradì. Gli parve una caricatura. Gli suggerii di
tentare con l’analisi. Ma era troppo vecchio, si limitò a scrivere un
saggio sul lapsus freudiano».
Quando iniziò a fare analisi?
«Nel 1978, nel pieno degli anni di piombo. E l’ho portata avanti per cinque anni».
Che cos’è la guarigione?
«Non
esiste. Freud parlò di destino. Beninteso non quello dei greci, ma il
saper riconoscere la spinta della propria vita. La corrente che ti
attraversa. La guarigione è questo riconoscimento».
Lei l’ha trovata questa corrente?
«Penso
di sì. Quando morì Jervis il mondo mi parve nuovamente crollarmi
addosso. Ma Johnny, così gli amici lo chiamavano, aveva saputo creare
basi solide per la mia psiche».
L’impressione che si ricava è che lei sia un uomo che ha attraversato la durezza dell’ideologia e la fragilità della vita.
«Mi riconosco e non rifiuto la fragilità».
Cosa significa accettarla?
«Sapere
che il tuo destino è questo e la fragilità vi partecipa. Bisogna
imparare a regredire. La persona matura non ha paura di mostrarsi
fragile. È una lezione che mi ha trasmesso Jervis. Rischiai di
vanificarla dopo la malattia. Ero sull’orlo della morte. Lasciai
l’università. Una parte di me non esisteva più. Poi, ancora una volta,
ne sono uscito. Riemerso».
Grazie al romanzo?
«Anche, ma non solo. Giunto in tarda età mi sento un autore avventizio».
In fondo tutta la sua vita è un tentativo di ricomporre l’immagine di una famiglia che lei ha vissuto in modo frantumato.
«È
probabile che volessi ricomporre quelle fratture. Un giorno frugando
tra le carte di mio padre vidi sulla mensola una foto che non avevo mai
notato. Dietro c’era la data: dicembre 1943. Nella foto la mamma è
seduta in mezzo a un campo, mentre io bambino le bacio la guancia. Era
una foto che lei gli aveva inviato, durante la guerra. In seguito mio
padre la incorniciò e la tenne come un reperto prezioso. Ecco, penso che
lì, nascosto nel bianco e nero, ci fosse il desiderio di una
ricomposizione familiare».