Repubblica 14.2.16
I tabù del mondo
Il sogno dell’avaro rinchiudere la vita in una cassaforte
È
una delle patologie che più hanno ispirato la grande letteratura, da
Molière a “Mastro don Gesualdo” di Giovanni Verga. Forse perché il
personaggio che accumula tanto senza dare nulla commette, come già
diceva San Paolo, il “peccato dei peccati”: trattenere tutto per
inseguire un’illusione di pienezza
di Massimo Recalcati
Arpagone
evita l’amore per una donna perché crede di bastare a se stesso: però
la sua brama di possesso non è mai sazia, è dominata da un “cattivo
infinito”
Nessun essere umano può possedere il mondo,
nessun vivente può esaurire la vita. La natura finita, lesa, mancante
dell’esistenza ci impedisce di essere “tutto”. Violare questo limite
anima la passione dell’avaro che nella sua spinta a volere, possedere,
conservare, trattenere tutto, vorrebbe restituire alla vita umana una
pienezza che essa non ha mai conosciuto. Non è un caso che San Paolo
descrive l’avarizia come il «peccato dei peccati », la radice prima di
tutti i peccati. Perché? Quale sarebbe la soglia, il tabù, che
colpevolmente l’avaro supera? In una celebre parabola di Gesù un signore
assegna ai suoi servi dei denari prima di partire per un viaggio; al
primo, tre, al secondo due, al terzo uno chiedendo loro di farne buon
uso sino al suo ritorno. Quando il signore, una volta rientrato a casa,
chiede a ciascuno di rendere conto dei denari ricevuti, il primo e il
secondo mostrano con soddisfazione di essere riusciti a moltiplicarli,
mentre il terzo non può che riconsegnare al padrone il solo denaro che
aveva ricevuto. Anziché rischiare di perderlo aveva preferito
seppellirlo sotto terra. È stata la paura di perdere il suo solo denaro
che ha fatto prevalere la spinta alla sua conservazione a quella del
rischio dell’impresa e del commercio. Ed è proprio questo che fa
infuriare il suo padrone: per paura il servo ha seppellito il suo
talento rendendolo sterile. Non c’è peccato più grande. Non è proprio
questa paura e questa sterilità che ritroviamo al centro del ritratto
dell’avaro?
La parabola evangelica mette bene in luce il carattere
drasticamente infruttuoso dell’avarizia. Questa appare innanzitutto
come una cattiva impresa perché la premura di evitare ogni forma di
perdita si ribalta nel suo esatto contrario: il servo pauroso, non
facendo fruttare il suo talento, perde tutto. La sua angoscia di fronte
al rischio che accompagna inevitabilmente ogni impresa umana denuncia
una viltà che restringe — sino a chiuderlo — l’intero orizzonte del
mondo. Nel rifiuto della perdita e nella smania di possedere tutto,
l’avaro perde ogni possibilità di realizzazione soggettiva. Le sue mani
possono stringere solo cose morte; l’accumulo di oggetti e denari e la
smania continua di possesso impediscono ogni soddisfazione rinviandola a
un futuro che non arriverà mai.
Ma la passione dell’avaro
travalica, in realtà, i denari, gli oggetti, la “roba” — per usare
l’espressione del Mastro don Gesualdo di Verga — perché la sua vera meta
è un’altra: è quella — come mostra il celebre Arpagone protagonista de
L’avaro di Molière — di rifugiarsi dall’aleatorietà ingovernabile della
vita mettendo la vita stessa in una cassaforte. Rubare l’avena ai suoi
stessi cavalli, moltiplicare i digiuni per i propri familiari, pilotare i
matrimoni dei figli in base al solo criterio dell’utilità economica,
preferire l’adorata “cassetta” che raccoglie il suo patrimonio alla sua
“amata” Marianna, rivelano l’ottuso ma lucido rifugio scelto dall’avaro
per sottrarsi ai rischi insidiosi dell’amore. Arpagone evita l’amore per
una donna perché persegue l’illusione di bastare a se stesso. Nondimeno
la sua brama di possesso non è mai sazia, ma appare, come in ogni
avaro, dominata da un “cattivo infinito”: più possiede più vorrebbe
possedere proprio perché quello che vuole possedere — la vita — non può
essere richiuso in cassaforte.
Questa insaziabilità svela
l’insensatezza della sua aspirazione più profonda: mettere la vita al
riparo della vita. Per questa ragione, Enzo Bianchi ha avuto modo di
definire l’avaro un “de-creatore”; egli non genera nulla perché è
accecato da una brama di possesso che gli impedisce di godere anche di
quello che ha. È la stessa illusione che può animare il collezionista:
aspirare a possedere l’ultimo pezzo, il più pregiato, salvo constatare
che, una volta ottenutolo, nemmeno questo pezzo è sufficiente a dare
un’autentica soddisfazione. L’avaro è un de-creatore perché compie il
cammino della creazione a rovescio: invece di generare la vita,
trasforma la vita in una cosa morta.
Per Freud la passione
dell’avarizia è il risultato di una fissazione precoce della libido alla
fase anale: anziché cedere il proprio prodotto all’Altro, anziché
accettare di entrare nello scambio simbolico con l’Altro, meglio
ritenere, conservare tutto, trattenere il proprio prodotto presso di sé
lasciando che sia l’Altro a chiedere di avere quello di cui manca.
L’illusione dell’avaro è, infatti, quella di non mancare di niente. È
questo il suo peccato, smentito però dalla stessa passione che lo
domina: la spinta compulsiva e avida al possesso non raggiunge mai la
soddisfazione dando luogo a un tormento incessante. In questo senso il
baricentro dell’avaro è sempre tutto fuori di sé: l’invidia per i beni
altrui è il suo tarlo più subdolo e più lacerante. Non è solo invidia di
quello che l’altro ha, delle sue proprietà, della sua ricchezza, ma
della sua stessa vita.
Melanie Klein lo ha teorizzato ampiamente:
l’invidia non colpisce il seno più arido e insufficiente, ma solo quello
più abbondante e generoso. L’invidioso morde la mano di chi lo ha
nutrito. Per questa ragione l’avaro non conosce gratitudine. La sua
hybris più propria sarebbe quella di farsi da sé, di non contrarre alcun
vincolo, di non avere mai a che fare con debiti ma solo con debitori.
Nel frattempo l’ombra della morte disturba il suo sonno ricordandogli
che lei — la morte — non si lascia mai — come, del resto, la vita —
rinchiudere in cassaforte.