La Stampa 11.2.16
Quella giovinezza febbrile bruciata nella passione politica
Tra sdegno e amare profezie, “una lotta continua contro tutto ciò che ci può irrigidire in un passato"
di Giovanni De Luna
Quando
è morto, Piero Gobetti aveva 25 anni. Era un giovane prodigioso,
destinato a lasciare un segno nella cultura politica dell’Italia del
’900. Ad aiutarci oggi a penetrare nel segreto di questa giovinezza
miracolosa ci sono anzitutto le lettere che si scrisse con Ada Prospero,
sua moglie.
Nel 1918 Piero e Ada avevano rispettivamente 17 e 16
anni. Abitavano entrambi in un vecchio stabile di via XX Settembre a
Torino. Dal loro carteggio emerge il percorso di formazione di un
adolescente che si costruisce una identità forte, pagando un prezzo
molto alto in termini di solitudine e di energie consumate, bruciando la
sua fiamma vitale in una febbrile giovinezza improvvisamente troncata
dalla morte. «Credo di poter riconoscere», scriveva, «le mie qualità più
innate in una fondamentale aridezza e una inesorabile volontà [...]. Ho
l’anima e l’inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un
cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l’ambiente in cui son
vissuto non mi ha offerto comunicazioni, non ha alimentato i miei
problemi; non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la son
dovuto creare io; se ho voluto capire ho dovuto vivere…».
La
propria realizzazione come uomo e come intellettuale fu per Gobetti un
progetto di vita che non prevedeva attimi di rilassamento: una lotta
continua («bisogna alla nostra precisione e maturità imporre la costanza
di un’inquietudine, di un’inappagata ricerca, di una lotta continua
contro tutto ciò che ci può irrigidire in un passato») che finirà solo
quando Piero, estenuato, si lascerà andare per sempre. Questo dato
esistenziale si riflette anche sulla sua biografia intellettuale.
Gobetti politico fu essenzialmente il teorico di una nuova classe
dirigente, attento ai fondamenti etici dei meccanismi di selezione delle
élite, strenuamente impegnato nella battaglia per il rinnovamento di un
ceto politico sfibrato dalla lunga pratica dei compromessi giolittiani e
pronto a capitolare, imbelle, di fronte al fascismo.
Il 13
settembre 1920, durante l’occupazione delle fabbriche che tante speranze
aveva suscitato nel movimento operaio, così egli scriveva a Ada: «La
rivoluzione che oggi si prepara non muterà, non può mutare nulla negli
uomini, che saranno seri solo se si faranno tali nella loro intimità. Il
solo problema che la rivoluzione può risolvere è dare o meglio
preparare in parte una nuova classe dirigente. Si tratta di rinnovare lo
stato, non la nazione [...]. La rivoluzione non si fa in un giorno, o
se si fa è una cosa ridicola».
Bisogna cambiare anzitutto se
stessi per poter cambiare gli altri. Questa è la molla che lo spinge nei
suoi progetti di rivoluzione liberale. La prima «zona libera» da creare
è quella all’interno della propria coscienza. Tradotte in politica,
queste posizioni sfociavano in una dura polemica contro il trasformismo,
l’abitudine ai compromessi e ai «connubi» considerata come una sorta di
tara ereditaria che aveva geneticamente minato lo Stato unitario fin
dalla sua costruzione nel processo risorgimentale.
Durante la sua
brevissima stagione di politico militante, nel movimento raccoltosi
intorno alla salveminiana Unità, il suo impatto con la classe politica
nazionale fu segnato da un impeto di sdegnato disprezzo. «27 settembre
1919. Visita a Montecitorio. M’è apparso di assistere alla catastrofe.
Che questi deputati fossero mascalzoni, farabutti, cretini, cinici,
piccoli, lo sapevamo. Sino al punto cui sono arrivati oggi, no [...].
Dopo otto ore di buffonate e di vigliaccherie basse, schifose, si è
giunti, in un Parlamento che dovrebbe rappresentare l’Italia, noi,
capisci, in un’accolta di dirigenti, di élites, si è giunti a una rissa
volgare a base di calci, pugni, sputi... Ci sono 90 probabilità almeno
su 100 che si abbia il disastro. La rissa alla Camera prelude alle
fucilate nel paese».
È troppo facile cogliere il carattere
profetico di queste affermazioni. Ma non bisogna indulgere a una comoda
attualizzazione delle sue parole. La sua intransigenza morale, la sua
implacabile «aridità», la sollecitazione permanente a scegliere la parte
con cui schierarsi, il rifiuto della mediazione e del compromesso
sembrano appartenere in esclusiva ai tempi del «ferro e del fuoco» di
quella lontana esperienza giovanile, impossibili da riciclare
all’interno di una normalità politica che alle identità forti ha
rinunciato per sempre.