mercoledì 10 febbraio 2016

La Stampa 10.2.16
il credito soffre da noi e anche a Berlino
di Stefano Lepri

Dal disastro delle Borse in questo inizio di 2016 hanno molto da imparare sia l’Italia sia la Germania. L’humour nero sulle prospettive dell’economia mondiale ha svariate ragioni; in Europa dipende assai dai limiti del modello tedesco, ricco di successi nel passato, ora incapace di indicarci una via per il futuro.
Ma se alla disciplina nordica si risponde con una tradizionale indisciplina italiana - già sperimentata in passato con risultati deludenti - non si va lontano. Non tarderà molto a fermarci l’ormai ben noto spread, la differenza di tassi con la Germania pronta a scattare in alto ogni volta che l’area euro torna a mostrare fragilità.
Nel nostro continente la caduta dei valori azionari si concentra sulle banche per precise ragioni. Le malefatte creditizie sono diverse da Paese a Paese; sulle grandi banche tedesche pesano ancora i titoli tossici e altri fantasiosi maneggi della finanza globale, sulle banche italiane invece lo scarso reddito dei prestiti alle clientele locali e agli amici degli amici.
In comune c’è il ritardo nel fare pulizia rispetto ad altre parti del mondo. Lo si deve al maggior ruolo delle banche nei finanziamenti alle imprese e alla maggiore influenza che esse esercitano sulla politica. Per questo motivo incide ancor più la scarsa prospettiva di guadagni futuri a causa della bassa crescita economica ora prevista per molti anni a venire in tutto il mondo.
Finora il modello tedesco mostrava che potevamo crescere di più esportando nei Paesi emergenti. Aveva funzionato, e l’Italia non era riuscita ad imitarlo. Ma ora che il traino degli emergenti viene a mancare, in sostanza le élites tedesche ci dicono che dobbiamo rassegnarci alla bassa crescita (e criticano Angela Merkel per aver sperato nell’impulso dei migranti).
Al contrario nei primi Anni Duemila l’Italia aveva già tentato, sotto Berlusconi, la via di una indisciplina di bilancio, senza risultati. Matteo Renzi può obiettare che non è la stessa cosa, perché lui sta facendo le riforme. Alcune ne ha fatte, anche importanti, ma il passare dei mesi mostra che ne occorrerebbero ben altre per smuovere un Paese che resta depresso e rassegnato.
Non basta comunque all’Italia una tattica solitaria quando l’assetto europeo entra tutto in discussione, per il combinarsi della crisi migratoria, del referendum britannico, della deriva autoritaria in Ungheria e Polonia, della persistente ingovernabilità della Grecia, di svariati esiti elettorali (dopo il voto del prossimo 26 anche in Irlanda sarà forse difficile formare un governo).
Fino a ieri, nelle varie «geometrie variabili» l’area euro a 19 sorretta dalla Bce di Mario Draghi sembrava almeno una certezza rispetto alla frantumazione dell’area Schengen e alla possibile uscita della Gran Bretagna dai 28. Ora anche qui si avverte qualche scricchiolio, con il documento comune del governatore della Banca di Francia e del presidente della Bundesbank.
All’apparenza i due, Jens Weidmann e François Villeroy de Galhau, si schierano a favore della richiesta di un ministero del Tesoro comune di tutta l’area euro, cara a Draghi e all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. In realtà sanno che nessun governo la vuole, così contemplano in subordine un piano B di regole rigidissime del tutto germaniche.
Anche quella è tattica, perché a quelle regole il governo francese non intende affatto piegarsi. Segnala manovre che si intrecciano, con dietro baratti non subito chiari; questo ritorno di facciata dell’asse franco-tedesco su un testo tedesco all’80% si colloca all’opposto dell’iniziativa del nostro ministro degli Esteri di riunire i sei originali Paesi fondatori dell’Unione.
Occorre invece confrontarsi nella chiarezza: la (vera) proposta tedesca è inaccettabile per l’Italia e anche per altri, una proposta italiana ancora non è articolata. E, per favore, basta con la bugia che le banche tedesche soffrono a causa dei tassi bassi di Draghi.