Il Sole Domenica 7.2.16
Ovidio (43 a.C. – 17 o 18 d.C)
Il trionfo del poema liquido
A
10 anni dal primo volume, il settimo completa l’imponente edizione
Valla delle «Metamorfosi» offrendo ricchissimi stimoli ai lettori
di Alessandro Schiesaro
A
dieci anni dall’uscita del primo volume, il sesto completa l’imponente
edizione Valla delle Metamorfosi di Ovidio e come i precedenti offre
ricchissimi stimoli ai lettori specialistici e non, anche grazie agli
indici tematici di tutta l’opera, strumento prezioso per esplorazioni
incrociate.
In questi ultimi tre libri dell’opera Ovidio porta a
termine il suo tour de force mitopoietico proiettando le Metamorfosi nel
futuro. Lo afferma con orgoglio, in tono di sfida, nei versi che
suggellano il poema: i suoi versi saranno letti ovunque e sempre, immuni
all’ira di Giove e all’usura del tempo. Questo gesto titanico giunge al
termine di un libro, il quindicesimo, che si concentra a più riprese, e
da più angolazioni, sul tema del tempo e del destino, nuclei
concettuali tra i più tormentati del poema. Tutte le Metamorfosi sono
dominate dall’inquietante dialettica tra permanenza e instabilità. La
prima creazione del mondo, narrata con l’enfasi e il respiro delle
grandi cosmogonie, dura pochissimo, subito sopraffatta dall’iniquità
delle prime generazioni di esseri umani e prontamente distrutta dal
diluvio vendicatore di Giove. La metamorfosi è di regola fulminea nel
suo concretarsi: bastano il capriccio di un dio lascivo, uno sguardo
illecito, l’errore di un attimo, e uomini e donne si ritrovano mutati in
alberi, pietre, animali, ma per sempre. Poema del flusso e del fluido,
le Metamorfosi, e insieme, quindi, di una rigidità punitiva.
Ora
Ovidio sceglie di affidare a un protagonista d’eccezione, il filosofo
Pitagora di Samo, una riflessione generale sullo scorrere del tempo.
Pitagora ha le carte in regola per farlo, convinto com’è della
metempsicosi: le anime dei defunti non muoiono mai, solo trasmigrano di
corpo in corpo, animale o umano che sia. Ne deriva l’assoluta empietà di
cibarsi di carni: «no, vi prego, non lo fate, e ascoltate i miei
avvertimenti, e se vi mettete in bocca membra di buoi macellati,
sappiate e rendetevi conto che masticate i vostri contadini!». Indossati
i panni del maestro ispirato, Pitagora illustra una visione del cosmo
incentrata sulla ciclicità, la ripetizione, la distruzione come
presupposto di nuova creazione. Lo si crederebbe un materialista alla
Epicuro, se non fosse appunto che per lui l’anima sfugge a questo
destino di dissoluzione materiale e sopravvive, eterna, ai corpi che di
volta in volta la ospitano.
Come all’inizio del poema, anche alla
fine importa a Ovidio sottolineare le credenziali didascaliche del suo
poema, il confronto diretto con la dottrina dei Greci. Le implicazioni
sono molteplici. Da un lato, è chiaro, la filosofia di Pitagora è il
riferimento perfetto per un poema metamorfico: in un ciclo continuo di
trasformazioni sorprendenti e di metempsicosi spiazzanti anche le storie
mirabili narrate dal poeta finiscono per trovare un inquadramento più
sistematico. La natura stessa, sottolinea Pitagora, è maestra di
metamorfosi: basta guardare come dal corpo putrefatto di un toro nascono
le api, dalle braccia recise a un granchio si generi lo scorpione, i
bruchi lascino il posto alle farfalle. Se tutti i corpi, come afferma il
filosofo, derivano la loro origine da altri, perché stupirsi delle
vicende che il poeta Ovidio ha ripercorso nella sua opera? Ma questi
ultimi libri del suo poema sono anche quelli in cui è più diretto il
coinvolgimento con temi storici e politici, in cui ritroviamo per
esempio, un’Eneide compressa e polemica, le lodi di Cesare, quelle di
Augusto. Tutte vicende che l’insegnamento di Pitagora ricolloca
giocoforza in una dimensione inevitabilmente caduca: Troia, ricca e
potente, «mostra soltanto antiche rovine», Sparta è ormai «terra senza
valore», Micene, Atene, Tebe: nulla più, se non nomi. E Roma? La
cronologia impone che Pitagora parli di Roma al futuro, come di una
città potente che si sta affacciando per la prima volta sul proscenio
della storia circondata da aspettative emozionanti, destinata a
diventare capitale del mondo, centro di un impero smisurato. Pitagora si
ferma qui, alla profezia di un futuro radioso esemplata in apparenza
sulla promessa virgiliana di un «impero senza fine», e però resa incerta
e periclitante dal contesto in cui è inserita, preceduta com’è da quel
regesto lugubre di grandi civiltà scomparse e seguita dalla conferma che
la terra, il cielo e tutto quanto contengono sono destinati a mutare
forma. Se tutto cambia e tutto trascorre neppure Roma ’eterna’ potrà
sfuggire a questa regola generale. Sfugge invece, Ovidio lo proclama nel
sigillo finale, il lavoro del poeta, il cui nome resterà indelebile e
la cui opera sarà letta da tutti, e «per tutti i secoli»: un auspicio
temperato dal dubbio, ma comunque una rivendicazione orgogliosa di
merito.
Fama duratura toccherà certamente alle Metamorfosi Valla,
che segnano il coronamento di un trentennio di studi in cui si è
radicalmente modificato il ruolo di Ovidio nel panorama della
letteratura latina e di quella mondiale. È stata particolarmente felice
la scelta del direttore dell’opera, Alessandro Barchiesi, di riunire
nell’impresa i protagonisti principali di questa nuova aetas Ovidiana.
Quasi mezzo secolo di età separa il più giovane tra i commentatori,
Joseph Reed, dal decano Edward Kenney, il quale fin dagli anni sessanta
aveva promosso a Cambridge un ripensamento complessivo della poesia
ovidiana. E a Cambridge l’opera si chiude oggi con questi ultimi tre
libri magistralmente commentati da Philip Hardie, dopo che lo stesso
Barchiesi e Gianpiero Rosati avevano dimostrato l’apporto decisivo della
critica italiana. Si addice alle Metamorfosi questa polifonia di stili e
modi dell’analisi, questo orizzonte internazionale dell’impresa. Per
ora, almeno, Ovidio ha avuto davvero l’ultima parola: «vivrò».
Ovidio,
Metamorfosii. Volume VI (Libri XIII-XV), a cura di Philip Hardie,
traduzione di Goachino Chiarini, indici a cura di Caterina Lazzarini,
Fondazione Valla/Mondadori, Milano, pagg. 972, € 30