Il Sole Domenica 28.2.16
150 anni dalla nascita del filosofo (1866-1952)
Croce e il suo amico Einstein
Divisi su concetti e pseudoconcetti ma uniti sui temi politici: entrambi erano preoccupati dalle sorti dell’Europa
di Vincenzo Barone
«La
gente si lamenta che la nostra generazione non abbia filosofi. Non è
assolutamente vero: solo che i filosofi, oggi, stanno in un’altra
Facoltà, e si chiamano Planck e Einstein». Così si esprimeva nel 1911 un
illustre intellettuale tedesco, il teologo e storico Adolf von Harnack,
nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Società Kaiser
Wilhelm.
Il dominus del pensiero nostrano, Benedetto Croce, era
di parere opposto: riteneva che gli scienziati dovessero fare il loro
mestiere – cioè «maneggiare e classificare» –, senza intromettersi in
faccende riguardanti la filosofia e il «vero». In quello stesso 1911, il
matematico Federigo Enriques organizzò a Bologna il IV Congresso
Internazionale di Filosofia. Chiamò a parteciparvi i più importanti
filosofi dell’epoca, ma anche grandi scienziati come Peano, Poincaré,
Langevin (quest’ultimo, dovendo parlare di relatività a una platea di
umanisti, introdusse proprio in quell’occasione il cosiddetto «paradosso
dei gemelli»).
Croce presenziò con un certo fastidio alle
sessioni del congresso. Durante il viaggio di ritorno, rilasciò una
famosa intervista in cui, senza mezzi termini, accusava Enriques di
incompetenza e di dilettantismo filosofico. «Si addossa le fatiche dei
congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e
disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici», disse.
Enriques, però, era uno storico e filosofo della scienza di prim’ordine,
mentre la matematica di Croce non andava oltre le quattro operazioni.
Né il pensatore napoletano riteneva opportuno approfondire le scienze
astratte ed empiriche, alle quali non attribuiva valore conoscitivo.
Ancora nel 1951 (quando ormai la rilevanza concettuale delle scoperte
scientifiche del Novecento era incontestabile), parlava di una
«tranquilla rivoluzione filosofica» compiutasi nella prima metà del
secolo, che sarebbe consistita nel fatto che «le scienze naturali e le
discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il
privilegio della verità ed esse rassegnatamente, o addirittura
sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di
pratica utilità, che non hanno niente a che vedere con la meditazione
del vero».
Com’era scontato, Croce non avvertì il bisogno di
esprimere un’opinione sulla teoria della relatività, neanche quando, nei
primi anni Venti, in occasione della venuta in Italia di Einstein (su
invito proprio di Enriques), molti altri filosofi italiani (per esempio,
Antonio Aliotta, Annibale Pastore, Francesco Orestano) ritennero di
pronunciarsi. Ruppe parzialmente il silenzio solo nel 1929, in un breve
scritto di commento a un libro dello studioso tedesco Alexander Maria
Fraenkel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce
(tradotto per Laterza solo nel 1952). Convinto dell’impossibilità di
principio di una filosofia della natura, Croce si diceva scettico
riguardo al tentativo, attuato da Fraenkel, «di dimostrare che il
progresso della scienza, che sarebbe rappresentato soprattutto dalla
dottrina della Relatività, ha importanza filosofica e trasforma
profondamente la vecchia scienza fisica e naturale, rendendo possibile
per la prima volta in questo campo, non il semplice ordinamento
classificatorio dell’esperienza, ma il giudizio dell’individuale,
affatto analogo al giudizio storico a cui mette capo la Filosofia dello
spirito». «Non oso decidere - aggiungeva retoricamente - se abbia
ragione esso [Fraenkel] o l’Einstein con gli altri matematici e fisici
della nuova scuola; esso che chiama filosofiche le loro scoperte e
filosofi quegli scienziati; quelli che protestano contro
l’interpretazione filosofica delle loro escogitazioni». Croce era nel
giusto quando respingeva come priva di senso l’interpretazione
soggettivistica della relatività, ma lo faceva solo per difendere la
purezza dell’idealismo, visto che considerava i concetti della teoria
einsteiniana, come tutti i concetti scientifici, nient’altro che
«pseudogiudizi riferiti a una fictio». Del tutto infondato, poi, era
l’agnosticismo filosofico che pretendeva di attribuire al padre della
relatività: con buona pace di tutti gli idealisti, era stato Einstein –
assieme ad altri fisici come Schrödinger, Heisenberg, Dirac - a compiere
la vera (e non così tranquilla) rivoluzione filosofica del Novecento.
Croce
e Einstein non potevano evidentemente incontrarsi sul terreno della
scienza e della filosofia, ma trovarono elementi di intesa e di stima
reciproca nel campo della politica e degli ideali civili. I due si
conobbero a Berlino nel 1931, scoprendo di condividere lo stesso
sentimento di preoccupazione per le sorti dell’Europa. Anni dopo, nel
1940, quando la tragedia della guerra si stava già consumando,
contribuirono entrambi a un volume sulla libertà (Freedom: its meaning),
edito a New York, che raccoglieva gli interventi di molti altri grandi
intellettuali dell’epoca. Nel 1944, all’indomani della liberazione di
Roma, Einstein inviò a Croce una lettera di stima e di incoraggiamento
per l’importante ruolo che il filosofo stava svolgendo nella
ricostruzione della democrazia italiana (la lettera, assieme alla
risposta di Croce, fu pubblicata dapprima in opuscolo e poi nella
raccolta crociana Pagine Politiche, Laterza, 1945). «Mi consolo –
scriveva il grande fisico – nel pensiero che Ella è ora presa da
occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e
particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto
liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro». E proseguiva: «La
filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo
prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più
bel rifugio degli spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non
opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non
vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza».
Croce
rispose cordialmente, dicendo di aver dovuto prendere temporaneo
commiato da quel mondo spirituale di cui parlava Einstein, per
partecipare direttamente alla vita politica e allo sforzo collettivo per
la rinascita del paese. La filosofia, osservava, «è un’azione mentale,
che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e
morale, che essa può soltanto sollecitare». Alla fine della lettera, si
scusava con l’illustre amico per essersi dilungato in ragionamenti:
«Naturam expelles furca, tamen usque recurret» («Potrai scacciare la
natura con la forca, ma essa ritornerà sempre»), scriveva, citando
Orazio e riferendosi alla natura del filosofo, «che distingue e
teorizza». La stessa massima, ironicamente, potrebbe applicarsi al suo
spiritualismo: scacciata dalla forca del Filosofo, la Natura finisce
sempre per tornare.