Il Sole 28.2.16
Quante storie per la Storia
La materia non è una successione di date e nomi ma il racconto del vissuto di donne e uomini
di Sergio Luzzatto
«Le
teorie di Martin Lutero ottennero larga diffusione grazie
all’invenzione della stampante». «I parlamentari risposero al fascismo
con la recessione dell’Avellino». «La fine della Seconda guerra mondiale
è stata determinata dallo sbarco in Lombardia». Gli strafalcioni – in
questo caso, un florilegio di quelli raccolti all’esame di maturità del
2015 – stanno tutti lì, a portata di clic. E illustrano le dimensioni
del problema. Ma non si tratta di ricominciare qui, una volta di più, il
vecchio gioco al massacro. Il gioco paternalistico del bestiario, dove
adulti che “sanno” registrano sia i vertiginosi abissi di ignoranza
degli studenti d’oggidì, sia i picchi vertiginosi della loro fantasia,
in una versione aggiornata e liceale dell’Io speriamo che me la cavo.
Piuttosto,
si tratta di misurare la difficoltà in cui gli insegnanti si trovano
(oggi come ieri, o forse più di ieri) nel veicolare un messaggio. Il
messaggio che la Storia non è soltanto quella roba lì: una galleria di
nomi più o meno altisonanti, e una successione di date da imparare a
memoria. Il messaggio che la Storia è, semplicemente, la derivata di un
rapporto: il rapporto fra passato e presente. E che solo una familiarità
con tale rapporto può conferire al vissuto dei ragazzi il suo giusto
spessore. Sottraendoli all’esperienza ingannevole di un presente
ultrapiatto. Svelando, nel loro presente di individui, le tracce di un
passato condiviso. Facendo entrare in risonanza – nella loro testa, ma
anche nel loro cuore – gli ultrasuoni della storia e i suoni della
memoria.
Perché, nella scuola italiana di oggi, riesce così
difficile trasmettere questo semplice messaggio? Perché i ragazzi delle
superiori appaiono oggi tanto sordi agli ultrasuoni della Storia? E
perché quegli stessi ragazzi risultano invece – non appena usciti
dall’aula – consumatori addirittura voraci di Storia e di storie? Perché
rigettano tutto del manuale scolastico, mentre al computer guardano e
riguardano Troy, alla Playstation si divertono a colpi di Total War?
Perché ignorano le fasi della Prima come della Seconda guerra mondiale,
ma si passano di mano in mano l’una o l’altra graphic novel, si scaldano
con il trisnonno di Gipi o con la nonna di Zerocalcare? Perché fanno
circolare sui social la foto di copertina del romanzo di Carlo Greppi,
Non restare indietro? Protetto dal suo cappuccio, un ragazzo guarda
attraverso il finestrino di un treno e vede, dietro al disegno sul vetro
di un emoticon irrisolto, l’ingresso di Auschwitz.
«“Figo, no?”
“Figo cosa?” “Andare laggiù.” “Non lo so, Kappa. Sono appena arrivato,
poi... vabbe’, non so.” “Oh, ti ricordi alle medie? Sembrava ci fosse
solo Anna Frank”». Tratto dal libro di Greppi (un giovane storico che ha
organizzato per anni i Treni della Memoria, e ne ha scritto adesso il
romanzo di formazione), questo scambio vale a sottolineare i termini del
problema. Alle medie, sembrava ci fosse solo Anna Frank. Perfino il
documento sulla Shoah più parlante di tutti, e tanto più alle orecchie
di lettori adolescenti, perfino quello rischia di rimanere, se letto a
scuola, lettera morta. Anzi: soprattutto se letto a scuola. Perché il
più delle volte – o sempre, per la maggior parte degli insegnanti –
leggere significa studiare. Cioè ragionare e memorizzare, anziché
partecipare e sentire. E il più delle volte – o sempre, per la maggior
parte dei ragazzi – studiare significa staccare la spina.
Il
problema è questo: la difficoltà in cui la scuola si trova nell’offrire
ai ragazzi (come ha scritto Enrica Bricchetto, in quel luogo meritorio
che è il sito didattico Historia Ludens) «proposte di senso». E anche –
si vorrebbe aggiungere – proposte di sensi: una Storia da consumare là
fuori con i sensi perennemente all’erta, l’udito e la vista, il tatto e
l’olfatto, più che da recitare alla cattedra con voce stentorea, o da
ruminare a testa bassa sbirciando i nomi e le date sul libro di testo.
Il problema è saper condividere con i ragazzi l’evidenza per cui il
programma di Storia trabocca di «questioni sensibili», che variamente
sollecitano, interpellano, lacerano la nostra attualità: dalle Crociate
all’11 settembre, passando attraverso i Lumi o la Resistenza, il
capitalismo o il comunismo, il crocifisso o il velo, la Controriforma o
le foibe. E la vera sfida non consiste nell’evitarle, le questioni
sensibili, in uno slalom del didatticamente corretto: la vera sfida
consiste nell’esplorarle.
Così, l’insegnante civilmente motivato
non avrà ragione di temere quello che un grande studioso francese del
Novecento indicava come il peccato mortale dello storico di mestiere:
l’anacronismo. Al contrario, il buon insegnante farà bene a imparare da
altri grandi storici del Novecento la pratica di un “anacronismo
controllato”. Secondo il ragionevole principio per cui il passato può
parlarci soprattutto se raggiunto attraverso un percorso a ritroso, se
interrogato a partire dalle domande del presente. Qualunque cosa
vogliano dirne – un giorno sì e l’altro pure – i sussiegosi cultori di
un’archeologia del sapere, o gli immarcescibili l audatores temporis
acti.
Adusi a criticare sempre e com unque le riforme scolastiche
di biechi «pedagogisti», e le indicazioni ministeriali di famigerati
«burocrati», i laudatori del buon tempo antico hanno elevato a bersaglio
una didattica per «competenze» anziché per «conoscenze»: ne hanno fatto
la ragione di tutti i mali, o di quasi tutti. Senonché, almeno per la
didattica della Storia, una simile eziologia spiega poco o nulla. Come
ha notato il gran maestro di Historia Ludens, Antonio Brusa, in Italia –
a differenza che in altri sistemi educativi – i programmi di Storia
sono rimasti incentrati (fortunatamente) sulle «conoscenze generali».
Senza
lasciarsi confondere dalla falsa dialettica competenze vs conoscenze,
il buon insegnante potrà scommettere piuttosto – per coinvolgere i
ragazzi – su un sostantivo plurale anziché singolare, e su una lettera
minuscola anziché maiuscola. Potrà scegliere di muovere dalle storie per
spiegare la Storia. Cioè di muovere dagli uomini e dalle donne in carne
e ossa, dalle persone prima ancora che dai personaggi. E dalle
situazioni di vita, dai passati ignari del futuro, prima ancora che
dalle svolte periodizzanti. Potrà cercare di raccontare Francesco,
quando ancora non era diventato san Francesco. Di raccontare madame
Curie, quando ancora si chiamava Maria Sk?odowska. Di raccontare
Eichmann, quando ancora non era altro che Adolf Eichmann.