Il Sole 9.2.16
Il ritorno dello «spread» e quella fiducia da ricucire
di Maximilian Cellino
Il
termine spread, inteso come la distanza che separa il centro dalla
periferia d’Europa quando si parla di rendimenti dei titoli di Stato,
sembrava se non dimenticato almeno passato di moda negli ultimi mesi.
Qualcuno è quindi rimasto non poco sorpreso quando ieri ha visto le
lancette dell’orologio indietreggiare fino alla scorsa estate per i BTp
italiani, ma anche per le obbligazioni di Spagna, Portogallo e Grecia
che un tempo condividevano con il nostro Paese l’acronimo talvolta
sprezzante di «Pigs».
Anche se curiosamente siamo tornati ai
livelli della crisi ellenica di luglio, addossare alle nuove difficoltà
del governo di Atene le responsabilità del ritorno in grande stile
dell’avversione al rischio anche nel mondo dei bond sovrani europei
sarebbe francamente eccessivo. Non fosse altro perché il movimento
divergente fra il Bund (tornato insieme al Treasury Usa e all’oro il
«bene rifugio» di un tempo) è in realtà in atto ormai da qualche
settimana e ieri si è soltanto accentuato. Stupisce semmai come
l’effetto domino non si fosse finora esteso ai titoli di Stato della
periferia d’Europa in questo inizio di 2016 di profonda crisi per i
mercati finanziari, condizionati dal rallentamento della Cina, dai
timori di una frenata dell’economia Usa e quindi globale, dal crollo del
prezzo del petrolio e da ultimo anche dalla tempesta che sta investendo
le banche non soltanto in Italia ma a livello europeo.
Suonano a
questo punto profetiche, e forse anche un po’ sibilline le parole con
cui nel fine settimana Graham Secker, lo strategist di una banca
d’affari del calibro di Morgan Stanley notava come «uno degli aspetti
più degni di nota nell’attuale fase di avversione al rischio sia il
mancato allargamento degli spread in Europa». E al tempo stesso lanciava
un avvertimento agli investitori enumerando uno a uno i guai (peraltro
noti) che affliggono i vari Paesi: lo «spaventoso» debito che la Grecia
dovrà ripagare la prossima estate; la mancanza di un governo in Spagna;
la soluzione poco efficace e di compromesso raggiunta per le sofferenze
delle banche italiane; l’incognita del nuovo esecutivo eletto in
Portogallo.
All’interno del report, l’analista di Morgan Stanley
citava anche il motivo più evidente per cui fino a questo momento il
bagno di sangue avesse risparmiato BTp e soci, ovvero il piano con cui
la Bce acquista titoli pubblici a suon di 60 miliardi di euro al mese. E
se da una parte è naturale e istintivo guardare a Mario Draghi ancora
una volta come alla figura in grado di arrestare l’emorragia, dall’altra
ci si chiede anche perché l’argine posto dall’Eurotower abbia iniziato a
fare acqua proprio adesso e soprattutto cosa si possa fare per
ripararlo.
Qui la questione diventa terribilmente complicata, come
ogni volta in cui si parla di rapporti di fiducia, variabile assai
difficile da misurare. Quello fra la Bce e i mercati si è come noto
incrinato a inizio dicembre, quando il board di Francoforte ha risposto
con un taglio del tasso sui depositi che è parso insufficiente viste le
premesse. Draghi ha provato a ricucirlo, promettendo di fatto venti
giorni fa nuovi interventi espansivi al prossimo meeting di marzo, ma
l’effetto è stato effimero e l’atteggiamento apparentemente passivo
tenuto finora dai membri del Consiglio direttivo di fronte all’avanzata
dell’euro (altra tegola per una ripresa europea sbilanciata sull’export)
non ha certo contribuito a migliorare il clima.
Prova ne sia che
il tasso di inflazione medio atteso dai mercati fra 5 anni e per i
successivi 5 (5y5y), ovvero la misura preferita dalla Bce per monitorare
gli effetti della politica monetaria, è sceso all’1,48%: siamo sui
livelli precedenti all’avvio del «qe». In questo valore ci sono tutti
gli effetti del crollo del petrolio, del rallentamento dell’Eurozona e
del rialzo dell’euro, ma si nasconde anche il senso di sfiducia che il
mercato ripone nel raggiungimento degli obiettivi fissati
dall’Eurotower. Draghi pare avere in serbo una nuova sforbiciata al
tasso sui depositi e anche qualche ritocco al piano di riacquisti. Ma la
strada verso il 10 marzo è ancora lunga e piena di insidie, e
soprattutto occorrerà capire se le mosse saranno sufficienti per placare
investitori sempre più esigenti e sfiduciati.