Il Sole 6.2.16
Hillary, la progressista pragmatica
Il 9 febbraio le primarie in New Hampshire
Il voto in casa del rivale Sanders imposterà il resto della campagna
di Mario Platero
La
coreografia è perfetta. Lo spettacolo elettorale al comizio di Hillary
Clinton a Derry, nel grande day center dove ci saranno 300 persone, è
strutturato come una piece teatrale in quattro atti. Con una ouverture:
Eileen McKay, una ragazzina di una quindicina d’anni canta l’inno
americano. Infila alcune stecche, ma aggiungono autenticità senza
togliere solennità al momento. Organizzazione e coordinamento una spanna
sopra rispetto a quelle degli altri comizi che ho visto fra Iowa e New
Hampshire: Donald Trump è un “one man show”, Rubio dialoga bene con il
pubblico ma tutto è molto normale, Cruz è oleoso, troppo predicatore.
Sanders porta qualche giovane attore sconosciuto che lo introduce, ma
regna il caos. Da Hillary tutto funziona come un orologio svizzero.
Un’anteprima di come potrà funzionare la sua Casa Bianca. Eppure durante
il suo intervento c’è una cosa che non funziona: appare sulla
difensiva. Lo era stata già in Iowa, quando nel discorso della vittoria a
Des Moines ha detto di aver «tirato un sospiro di sollievo» per la
vittoria strettissima contro Bernie Sanders.
Ora qui a Derry lo è
su un altro tema: Bernie Sanders l’ha appena accusata: «Non puoi essere
moderata un giorno e progressista il giorno dopo. Non sei progressista.
Punto». Il tema è diventato dominante nel dibattito politico
democratico. Perché dopo molto fair play, per primo Sanders si è tolto i
guanti. Eppoi perché, soprattutto perché la base, gli attivisti che
partecipano alle primarie e che votano qui in New Hampshire sono quasi
tutti progressisti. E Hillary invece di contrattaccare, spiega perché è
progressista. E quando in politica ti giustifichi davanti all’attacco
del tuo avversario, perdi subito punti. Hillary lo ha capito. E ieri
notte nel dibattito organizzato dalla NBC a Durham i guanti se li è
tolti lei: ha finalmente contrattaccato, ha messo Bernie, che non se
l’aspettava nell’angolo. Ma anche lui ha risposto a tono e di nuovo
attacca: «Una che prende 650mila dollari per vari discorsi a Goldman
Sachs, che ha un Superac (fondo elettorale) da 15 milioni di dollari
finanziato da Wall Street, che ha votato per la Guerra del Golfo non è
un progressista» dice Bernie nel dibattito. E Hillary di rimando: «Cosa
vuoi insinuare Bernie, che sono venduta? Dillo apertamente allora. Ma
vai a controllare il mio voto e vedrai che non troverai mai collusione.
Anzi ero sotto attacco delle lobby forti delle case farmaceutiche ad
esempio e delle banche. Smettiamola con questa storia». Una conferma di
quanto questo voto del New Hampshire sia un voto di svincolo, importante
per impostare il resto della campagna.
Ma cominciamo dall’inizio,
dal primo atto del comizio di Hillary a Derry: si presenta Chris
Carathey, un ragazzo di 26 anni volontario della campagna Clinton.
Racconta perché ha lasciato la California per fare politica in New
Hampshire, tutto per Hillary. Poi la sorpresa: «Sapete qual è la persona
più importante della mia vita?», tutti ci aspettiamo che dica Hillary,
invece rivela: «Mia madre... Mi ha cresciuto da sola...»; racconta delle
mille difficoltà, sacrifici, studi, debiti e chiude: «È giunto il
momento per l’America di avere una donna, una madre e una nonna alla
Casa Bianca». Il pubblico, fatto soprattutto di donne, esplode. Secondo
atto. Entra Gaby Gifford, la ricordate? La giovane deputata democratica
che fu colpita davanti a un supermercato Safeway in un sobborgo di
Tucson in Arizona. Rimase in coma e poi paralizzata per alcuni anni.
Entra camminando da sola, un po’ incerta. Il pubblico adesso è muto. Con
lei ci sono Hillary e il marito, l’astronauta Mark Kelly. Mark racconta
la sua storia: un pilota navale, un veterano della Guerra del Golfo,
poi un astronauta con sei missioni Shuttle, tre da comandante
dell’Endevour. Racconta l’incontro con Gaby e l’amore. Poi ricorda
quella giornata terribile, i sei morti, i 19 feriti, sua moglie ferita
grave, paralizzata: «C’era anche Christina Taylor-Green, nove anni nata
l’11 settembre del 2001, il giorno dell’attacco all'America - dice Mark -
Bellissima, intelligente, da grande voleva fare politica. Era il suo
turno per una stretta di mano con Gaby invece fu uccisa sul colpo». Il
pubblico è ipnotizzato. Anche perché si alza Gaby che parlando con
difficoltà chiede il voto per Hillary. L’emozione in sala è forte.
L’applauso è liberatorio. Sta per partire il terzo atto: il discorso
della futura Madam President. Poi il quarto, il town hall meeting con le
domande del pubblico. La parte dedicate a domande e risposte funziona
Hillary è spontanea, diverte, racconta aneddoti. Il discorso invece è
l’atto in cui Hillary appare sulla difensiva. Ci sono sbalzi di tono, a
volte la sua voce è troppo forte, un po’ stridula. Bob Woodward del
Washington Post dice che è una voce costruita, poco naturale, per
dimostrare energia. Poi parte con la difesa del suo passato
progressista: «Non sono progressista? Io che ho garantito l’accesso alle
medicine per 8 milioni di bambini, che ho bocciato la privatizzazione
delle pensioni che voleva Bush, che ho difeso i diritti dei gay e delle
lesbiche, che ho combattuto per i diritti civili...».
L’insulto
sul progressismo è gravissimo per Hillary. Non solo per le implicazioni
politiche, ma perché il progressismo è stata la sua bandiera. Quando il
marito Bill, iscritto al Democratic Leadership Council, un movimento di
centro destra all’interno del partito democratico fondato alla fine
degli anni Ottanta da influenti politici del sud, come Sam Nunn, allora
potentissimo senatore della Georgia per rispondere alla rivolzuione
reaganiana, Hillary si era tenuta a sinistra. Il suo passato, dai tempi
di Chicago e dell’università era più radicale di quello del marito
maturato politicamente in Arkansas e più in generale nella “Fascia del
Sole”. E nei primissimi giorni alla Casa Bianca, Hillary impose a Bill
una scelta superprogressista, chiese e ottenne la gestione per la
riforma sanitaria spostando a sinistra il baricentro politico
dell’amministrazione. Una scelta che costò carissima al Presidente: la
riforma non andò da nessuna parte e i democratici furono puniti
duramente dagli elettori alle elezioni di metà mandato del 1994. Hillary
tornò a fare la mamma e fu lì che imparò la lezione e capì che il
pragmatismo deve prevalere sull’idealismo se si vogliono raggiungere dei
risultati. E questo lo ha detto chiaramente a Sanders al comizio di
Derry e ieri notte al dibattito: «Le idee devono poi trovare
un’applicazione, altrimenti servono a poco». Anche per questo, per la
sua esperienza, si dice che nel gruppo sia democratico che repubblicano
sia lei oggi la persona più qualificata per fare il Presidente e guidare
il paese in un momento difficile sia sul piano interno che su quello
internazionale: «Sono una progressista che fa le cose» dice ancora
Hillary. Manon contrattacca, Hillary non ha ancora accusato Sanders di
essere un “socialista” come lui stesso si definisce. Non ha elencato gli
insuccessi parlamentari di Bernie, né le difficoltà a tradurre in
azione le sue promesse. Lo fa solo in modo indiretto. Jen Palmieri, il
capo delle comunicazioni mi dice che non si risponde alle provocazioni.
Che la strada è lunga e che Hillary ce la farà, a partire dei prossimi
stati.
In New Hampshire in effetti, nel cortile di casa sua, visto
che è Senatore del Vermont, Bernie ha un vantaggio di quasi 20 punti, è
al 56,7 delle preferenze contro il 37,2 di Hillary. Ha anche raccolto
più fondi di Hillary in gennaio, 20 milioni di dollari in donazioni
mediamente di 27 dollari, con tre milioni di dollari solo negli ultimi
tre giorni. Hillary ne ha raccolti 15. «Siamo più poveri», dice ancora
Hillary con insistente modestia. C’è dunque una doppia strategia, linea
difensiva in pubblico a distanza ravvicinata per smentire chi la
definisce arrogante, dinastica, troppo sicura di se. Hillary sotto
attacco può cogliere l’opportunità per smarcarsi dall’immagine di
“potere forte”, come ha fatto ieri mattina. Ma in diretta televisiva
come ieri sera, parte l’urlo quando si ripropone la questione del
progressismo a due velocità. Comunque sia le basta serenamente guardare
in avanti: in Carolina del Sud il vantaggio di 20 punti è per lei, come
su base nazionale. Ma se il New Hampshire andrà malissimo le cose
potrebbero cambiare. Per questo Hillary si fermerà qui fino al voto del 9
febbraio. E per questo non mollerà, la doppia strategia che abbiamo
visto in azione nello stesso giorno è accompagnata da centinaia di email
che chiedono un dollaro. Ci vuole qualche voto in più, deve ridurre la
differenza con Sanders partendo da posizioni di svantaggio, da
“underdog”. Anche perché sa che il vento cambierà e il bello deve ancora
venire. Basta avere pazienza, dote, questa sì, centrale, per uno
statista.