Il Sole 6.2.16
Il vero potere dietro i raìs, un’ombra che si perpetua
La repressione in Medio Oriente. Una macchina infernale di polizia, paramilitari e servizi
di Alberto Negri
Un
cadavere trovato in un fosso, un’altra vita spezzata, un’altra storia
sbagliata e ora scriveranno fiumi d’inchiostro facendo domande a un
generale che non può rispondere. Il sistema di potere egiziano, e quelli
del Medio Oriente in generale, sono brutali, qui la tortura non è
l’eccezione ma la regola. Lo abbiamo sperimentato il 17 gennaio 1991 in
un caserma giordana, con Eric Salerno del Messaggero, una ventina di
militari in divisa prima ci massacrarono metodicamente di botte usando
il calcio del fucile, poi tentarono di buttarci da una finestra dove
sotto aspettava una folla urlante ed eccitata. Fummo fortunati a
cavarcela.
La realtà di solito è un’altra. Il generale Abdel
Fattah al-Sisi, e come lui tutti gli autocrati e i regimi mediorientali,
esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso
l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i
famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno: 12 se ne contavano nella
Siria di Assad alla vigilia della rivolta, sei nella macchina infernale
dell’Iraq di Saddam Hussein, tre in Egitto dove il Mukhabarat è andato a
scuola dal Mossad. I veri capi dell’Algeria negli anni ’90 e Duemila,
durante i massacri islamici, erano i generali della polizia, non i
governi. I ministri di solito qui contano poco. In Turchia quando non si
capisce chi fa le stragi si parla dello Stato Profondo, il “Derin
Devlet”: l’intreccio tra militari, polizia, servizi, criminalità e
terrorismo che sopravvive in tutte le stagioni politiche compresa questa
di Erdogan. Ovunque c’è un ministro dell’Informazione per filtrare,
censurare e controllare giornalisti locali e stranieri: è la stessa
esistenza di questo ministero a dirci che l’informazione non è gradita,
se non quando è propaganda.
Le istituzioni repressive si
perpetuano nel tempo: cambiano i capi e i torturati di prima diventano
dopo i torturatori. Lo Shah, all’inizio degli anni 60, sembrava in pieno
controllo. Aveva creato la polizia politica Savak con 60mila agenti ma
si calcola che negli anni ’70 circa un terzo degli iraniani avesse
lavorato come informatore o fosse entrato in contatto con i servizi.
Questi numeri possono apparire esagerati,forse lo sono. Ma lo stesso
fenomeno si riscontra in molte dittature. In Iran oggi i servizi della
Vevak, acronimo che ricorda sinistramente la Savak imperiale, lavorano
in modo capillare e con tecnologie moderne. Una macchina formidabile ma
anche semplice: per ogni due rappresentanti di un’istituzione c’è un
terzo, di solito un pasdaran, che fa rapporto sull’attività interna o
esterna. Hussein Shariatmadari, attuale direttore di Keyhan, un giorno
mi mostrò un braccio mutilato dalla Savak dello Shah ma negli anni ’80
era lui a torturare i prigionieri nel carcere di Evin. A volte ci
tengono a dirtelo per fare capire che contano davvero. L’Iran è un Paese
dove la repressione è un meccanismo oliato come dimostra la fine
dell’Onda Verde nel 2009 che a Teheran fallì ma anticipò il crollo dei
regimi arabi.
È questo il potere che invece di sfaldarsi rinasce
negli apparati. Le rivoluzioni da questo punto di vista possono sembrare
illusioni ottiche. I miliziani di Mubarak sono stati riciclati da
al-Sisi dopo il colpo di Stato contro i Fratelli Musulmani. In Egitto i
militari come Nasser, Sadat, Mubarak, Sisi, svestono l’uniforme e
mettono giacca e cravatta, ma continuano a gestire da 60 anni un lato
oscuro dello Stato che è il vero potere. È questa la macchina infernale
che stritola i popoli mediorientali: cambiano i manovratori non i
metodi. Non c’è neppure bisogno di impartire ordini: gli apparati
polizieschi che sostengono i raìs sono zelanti, anche troppo. Per questo
il generale egiziano non può dirci tutta la verità su Giulio Regeni e
le ombre del potere.