Il Sole 2.3.16
«Arruolati» in Iraq, ai margini in Libia
L’Italia è in guerra contro il Califfato?
di Alberto Negri
L’Italia
è in guerra contro il Califfato? È una questione di ottimismo,
soprattutto quando la campagna elettorale americana entra nel vivo e
serve una nuova narrativa perché gli Usa comunque gli stivali sul
terreno non ce li metteranno. Ai jihadisti, secondo il segretario di
stato John Kerry, adesso dovrebbero tremare le gambe dalla paura. La
coalizione «sta facendo la differenza», ha sottolineato a Roma
ricordando che con l’ingresso dell’Afghanistan sono ormai 66 i Paesi
impegnati nell’alleanza contro lo Stato Islamico.
Si vede che
siamo male informati su chi combatte davvero sul campo l’Isis. A parte
che le labili forze armate del disgraziato Afghanistan già barcollano
davanti agli attacchi dei talebani, chi si batte contro i jihadisti sono
i curdi siriani, i curdi iracheni, le forze di Assad, i pasdaran
iraniani, gli Hezbollah libanesi, tutti sostenuti dai russi. Esiste
un’aviazione ma non una fanteria occidentale contro i jihadisti e tanto
meno c’è poco da fidarsi dei turchi che ne sono stati complici.
Kerry
ha ricordato il successo della riconquista di Ramadi da parte degli
iracheni ma evita di dire che se non ci fossero stati i pasdaran
iraniani i jihadisti sarebbero già entrati a Baghdad: sono stati loro
che hanno ricacciato indietro l’Isis. Per non parlare del fronte siriano
dove le carte in tavola sono cambiate soltanto con la discesa in campo
della Russia.
Ma siamo costretti a dare credito al segretario di
Stato perché nell’occasione del vertice sul terrorismo ha lanciato
all’Italia lo zuccherino: siamo stati noi, ha detto, a spingere per
assegnare l’appalto della riparazione della diga di Mosul alla società
italiana Trevi. Tutto pur di scrivere il nome dell’Italia tra i
combattenti anti-Isis. Ma lo zuccherino costa caro, perché l’Italia
dovrà inviare 450 soldati a garantire i lavori in un’area vulnerabile
alle incursioni dell’Isis. Se ci mandiamo i militari significa che su
quelli iracheni e i peshmerga curdi di Massud Barzani non si può fare
affidamento: del resto nel 2014 si sfaldarono e se la diedero a gambe
davanti all’avanzata del Califfato.
All’epoca gli americani non
fecero una piega davanti alla caduta di Mosul perché ritenevano che i
sunniti avevano diritto a un “risarcimento” per l’ascesa della mezzaluna
sciita e il crollo del regime di Saddam Hussein provocato
dall’invasione disastrosa del 2003. Il regime sanguinario di Assad, come
dice Kerry, attira i jihadisti ma la vera calamita del radicalismo
islamico e del qaedismo in tutta la regione è stata proprio la guerra
americana di 13 anni fa. Ma ognuno si racconta la storia come vuole,
anche un uomo probo e un eroe di guerra come Kerry, e si spera che con
il tempo la gente perda anche la memoria dei peggiori errori della
politica estera di Washington.
Kerry comunque ieri era deciso a
indorare la pillola, che per l’Italia si chiama Libia. Mentre la Francia
e gli Usa si consultano con scambi di piani e informazioni nel “Gruppo
La Fayette”, intitolato al generale protagonista sia della rivoluzione
americana che di quella francese, l’Italia è rimasta i margini di una
vicenda dove il ruolo di mediazione dell’Onu è stato affidato prima a
uno spagnolo e poi a un tedesco. Sembra che ormai si avvicini, si dice
entro un mese o due, un intervento militare ma della guida di questa
coalizione non si parla ancora, almeno esplicitamente, anche se la
candidatura italiana appare più consistente e per un semplice motivo:
gli Usa non vogliono mettere truppe sul terreno né in Libia né in Siria.
Né si discute degli obiettivi - a parte contenere il Califfato nella
Sirte - né dei costi né dei rischi.
Questi dati assai controversi
non li cambierà neppure l’effetto taumaturgico di un nuovo governo
libico di unità nazionale. E qualche dubbio sui reali obiettivi degli
Stati Uniti persiste: secondo l’Istituto israeliano di Studi
Strategici,la posizione Usa rimarrà fluida almeno fino alle prossime
presidenziali. Se non ci sarà un impegno completo degli americani è
meglio pensarci bene prima di intervenire.