Il Sole 25.2.16
Esito scontato. Budapest dirà «no» chiudendosi in se stessa
Una «ribellione» che rischia di destabilizzare l’Europa
di Attilio Geroni
Più
di ogni altra crisi precedente, è quella dei migranti a mettere in
pericolo la tenuta dell’Unione europea. Nel 2012 il rischio di
disgregazione era stato monetario, con la possibile reversibilità
dell’euro. Nel 2016 questo rischio è politico-istituzionale, in mancanza
di un’azione condivisa sul controllo delle frontiere esterne della Ue,
sulla gestione degli arrivi dei profughi in base a quote nazionali e
sull’attuazione del piano di ricollocamento.
La decisione del
premier ungherese Viktor Orban purtroppo non è sorprendente. Il
referendum nazionale per dire sì o no alle quote obbligatorie di
migranti è la logica conseguenza di una politica che ha
nell’ultranazionalismo la sua ragion d’essere. Già oggi possiamo dire
che non vi è alcun dubbio sull’esito del voto, la cui data non è stata
resa nota. Budapest dirà uno scontato «no» ai rifugiati e si chiuderà
ancora di più in sé stessa dopo aver costruito, per prima in Europa, un
nuovo muro al confine con la Serbia ricacciando nei Balcani l’umanità in
fuga dalle guerre. La maggioranza dell’opinione pubblica ungherese è in
sintonia con Orban e con il suo disegno di rinazionalizzare le
prerogative politiche più importanti o di non cedere la sovranità
residua.
Si crea così un pericoloso precedente e non è escluso che
la Polonia, guidata dal Partito Diritto e Giustizia di Jaroslaw
Kaczynski e già impegnata attivamente in politiche di limitazione delle
libertà d’espressione, decida al più presto una simile iniziativa. Da
quando la crisi dei migranti è esplosa in Europa tra l’estate e
l’autunno dello scorso anno, e centinaia di migliaia di profughi si sono
incanalati nella Mitteleuropa per raggiungere il ricco Nord (Germania e
Paesi scandinavi) la reazione dei Paesi dell’Est è stata univoca,
compatta: non vogliamo i migranti sul nostro territorio. Le ragioni
della chiusura sono in parte storiche. Ungheria, Polonia, ma anche
Repubblica Ceca e Slovacchia non hanno esperienze recenti di afflussi
migratori extra-europei; sono popolazioni etnicamente ancora molto
omogenee che i decenni di dominio comunista hanno reso poco esposte a
contaminazioni e integrazioni, se non qualche folcloristico esempio di
innesti di comunità vietnamite concordati dai rispettivi regimi.
A
Budapest, ma anche a Varsavia, viene alzato e agitato lo scudo delle
radici cristiane, della perdita d’identità che l’arrivo di profughi
islamici causerebbe alle popolazioni locali. Il cristianesimo in Europa
Centrale è diventato in questa fase una sorta di menù à la carte dal
quale è facile dimenticarsi di scegliere uno degli ingredienti più
importanti, quello della solidarietà. Eppure di solidarietà, anche
materiale (si veda il grafico in pagina) i Paesi dell’Est ne hanno
ricevuto tanta dall’Europa. Il loro ancoraggio ai valori dell’Unione,
allo stato di diritto, sono stati fondamentali per una relativamente
rapida emancipazione economica, istituzionale e sociale dai decenni del
partito e del pensiero unico.
Il fronte anti-migranti di Polonia,
Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia sovverte inoltre gli equilibri
geopolitici del Vecchio Continente. Strettamente legati alla Germania,
per ognuno di essi di gran lunga il più importante partner politico ed
economico, ora stanno esattamente agli antipodi della posizione tedesca
in materia. Questi quattro Paesi formano oggi il Gruppo di Visegrad,
nato nel 1991 (allora erano in tre perché c’era ancora la
Cecoslovacchia) per aiutare il loro cammino verso l’integrazione
europea. Pochi giorni fa hanno celebrato a Praga il 25° anniversario, ma
il significato della loro alleanza è cambiato brutalmente e si ritrova
nella parola stessa, Visegrad: non solo una località ungherese che
domina da una collina un’ansa del Danubio, ma una parola slava per dire,
grosso modo, fortezza. Protetta quindi da alte mura.