Il Sole 2.2.16
Oggi il segretario di stato americano John Kerry
a Roma per sollecitare al nostro paese un maggior impegno in Libia e
contro il Califfato
Isis, le richieste all’Italia e le amnesie degli alleati
di Alberto Negri
Ogni
tanto i nostri alleati ci impartiscono lezioni oppure ridimensionano le
nostre ambizioni, un po’ velleitarie, di Paese guida del Mediterraneo
meridionale. Quindi quando ci vengono a offrire qualche ruolo, anche di
seconda fila, è meglio mettersi in guardia. Facciamo parte della Nato ma
quando si è trattato di bombardare il nostro alleato Gheddafi non ci ha
fatto neppure una telefonata. Nessuno ci riconosce un ruolo leader
nella crisi libica se non a parole, nei fatti decidono altri. Per questo
dobbiamo preservare i nostri interessi e difenderli fino a dove è
possibile.
Il segretario di Stato americano John Kerry è a Roma
per una conferenza sull’Isis e il terrorismo e chiede all’Italia un
maggiore impegno nella lotta al Califfato. Come se già non bastasse
averlo di fronte alle nostre coste. Il ministro della Difesa francese Le
Drian a sua volta ci avverte che a Lampedusa possono infiltrarsi
terroristi: perché forse non lo sapevamo? Lo aveva già detto due anni fa
l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino. Ma all’epoca non pare proprio
che europei e americani fossero così attenti a dare una mano all’Italia
di fronte alle ondate migratorie. Anzi. E non sembra che l’intelligence
francese sia così sveglia a prevenire gli attentati, neppure a casa
propria. La Francia è stata svelta invece ad attaccare la Libia nel
2011: è più un competitore che un alleato di cui fidarsi.
Stati
Uniti e Francia intendono avere l’Italia sul terreno in Libia nel caso
di un intervento internazionale ma per attuarlo occorre un mandato del
Consiglio di sicurezza Onu oppure l’invito di un governo libico
rappresentativo che per ora non c’è ancora. Andare in Libia significa
esporre l’Italia ad attentati dentro e fuori il territorio nazionale e
queste cose i francesi e gli americani le sanno perfettamente. Quanto ai
raid aerei contro il Califfato si possono pure fare ma hanno un effetto
limitato e gli esempi non mancano.
L’Italia può impegnarsi a
difendere i pozzi della Tripolitania, il gasdotto Greenstream, ad
addestrare truppe e polizia libica ma lotta sul terreno al Califfato la
facciano libici, francesi e americani. Con un consiglio: che abbiano
anche un progetto politico, quelli precedenti sono miseramente
naufragati.
Gli errori più macroscopici, preceduti dalla
disastrosa invasione dell’Iraq nel 2003, li hanno compiuti proprio gli
Stati Uniti e i loro alleati europei e musulmani scatenandosi contro il
regime di Assad e quello di Gheddafi. La logica vorrebbe che toccasse a
loro rimediare: l’Italia ha pagato e sta pagando con gravi danni
economici e ondate di migliaia di profughi nel Mediterraneo. Questa
volta patti chiari e amicizia lunga. Ci sarà qualcuno che oggi avrà il
coraggio di dirglielo?
C’è da dubitarne perché anche dalla Siria
non vengono segnali incoraggianti. L’avanzata di Bashar Assad, dovuta
essenzialmente all’intervento della Russia, e i negoziati di Ginevra
mettono ancora una volta sotto i riflettori il più clamoroso errore
della politica internazionale negli ultimi anni: pensare che nel 2011 il
regime di Damasco potesse cadere in pochi mesi.
Adesso qualcuno
si dovrà ricredere. In primo luogo la Turchia e l’Arabia Saudita che
hanno appoggiato i jihadisti ma anche gli Stati Uniti e la Francia che
pensavano di bombardare Assad nel 2013 ritenendo che la sua fine fosse
vicina. Eppure si continua nello stesso solco: la Turchia ha messo il
veto alla partecipazione alle trattative dei curdi siriani, gli eroi di
Kobane, e nessuno dice una parola.
Le potenze in competizione -
Arabia Saudita, Iran, Turchia - non sono state in grado di risolvere la
crisi siriana, il maggiore disastro umanitario dai tempi della seconda
guerra mondiale: devono essere Mosca e Washington a spingerli verso una
soluzione altrimenti sarà ancora la guerra non la diplomazia a risolvere
il conflitto. Ma anche Usa e Russia devono affrontare i loro problemi:
in Siria cooperano contro l’Isis ma sono pure in competizione. Mosca
intende mantenere in sella Assad, gli Stati Uniti devono salvare la
faccia della Turchia e dell’Arabia Saudita, pilastro sempre più fragile
nel Golfo e impantanata nella guerra in Yemen.
La via di uscita,
forse l’unica percorribile, è simile a quella che mise fine alla guerra
del Golfo tra Iran e Iraq nell’88: un cessate il fuoco che non assegni
la vittoria a nessuno. È questo il lavoro della diplomazia e che Staffan
de Mistura conosce perfettamente avendo studiato la storia e i
precedenti. Fu un italiano dell’Onu, Giandomenico Picco, a mettere a
punto l’accordo nell’88. Sul piano diplomatico, più che militare,
l’Italia una mano può darla sempre, in Libia e altrove.