Il Sole 13.2.16
Un’intesa fragile
Ma a dire l’ultima parola saranno i ribelli sul campo
di Alberto Negri
Hanno
fatto male i conti, molto male: dove sono coloro che cinque anni fa
pensavano di abbattere facilmente il regime baathista di Bashar Assad?
Annaspa
alle primarie democratiche la signora Hillary Clinton, allora
segretario di Stato, che il 7 luglio 2011 spedì l'ambasciatore Robert
Ford, accompagnato dal collega francese, in mezzo ai ribelli islamici di
Hama per mandare un messaggio esplicito al mondo musulmano: il via
libera alla guerra contro il regime di Damasco.
È furibondo Tayyp
Erdogan che deve piegare la testa: pensava di mettere le mani su Aleppo
e attraverso l’Isis anche su Mosul per proporsi come il nuovo Ataturk.
Si ritrova alle porte invece i curdi siriani, alleati di Assad e Mosca
ma appoggiati anche dagli Usa, più forti che mai: ha accolto due milioni
e mezzo di rifugiati siriani facendo passare ai suoi confini
sull’”autostrada della jihad” migliaia di combattenti e senza ottenere
una contropartita strategica. Per questo è nervoso, ma né la Nato né gli
Stati Uniti hanno intenzione di fare una guerra per soddisfare le sue
ambizioni neo-ottomane.
L’Arabia Saudita, priva ormai anche del
senso delle proporzioni, e forse del ridicolo, vuole schierare in Siria
le sue truppe con la coalizione internazionale a guida americana ma gli
Usa al momento lo escludono. I sauditi sono in difesa non in attacco:
nonostante 10 mesi di bombardamenti incessanti in Yemen sui ribelli
sciiti Houti -anche se meno mediatici di quelli russi su Aleppo - Riad
non riesce a muovere un passo nel pantano dove si è cacciata del cortile
di casa, una sorta di Vietnam arabo.
Mentre l’Iran sciita, il
suo arci-nemico nel Golfo, si è liberato delle sanzioni e con l’aiuto
militare di Mosca si prepara a estendere la sua influenza regionale
attraverso Pasdaran e Hezbollah.
Cominciata con la primavera
araba e la rivolta di Daraa nel marzo 2011, quella siriana era
all’inizio una legittima protesta popolare contro un regime autocratico e
brutale ma si è trasformata quasi subito in una guerra per procura
contro Teheran, al punto che gli Emirati per conto delle monarchie del
Golfo offrirono decine di miliardi di dollari ad Assad nel giugno 2011
per troncare la storica alleanza con la repubblica islamica. Assad
rifiutò perché tra l’altro negli anni ’70 furono gli ayatollah a
legittimare l’appartenenza degli alauiti all’islam, considerati dai
sunniti dei miscredenti.
Ricordiamo che la Siria fu l’unico stato
arabo a schierarsi con gli ayatollah quando nell’80 Saddam Hussein
attaccò l’Iran e a favorire l’insediamento degli Hezbollah sciiti in
Libano. Da queste parti la resa dei conti tra il fronte sciita e quello
sunnita è cominciata decenni fa, ancora prima che gli Usa invadessero
l’Iraq nel 2003 sbalzando dal potere i sunniti e aprendo il vaso di
Pandora mediorientale, lasciando poi che i governi di Baghdad
emarginassero colpevolmente le altre minoranze. L’Iraq è stata la
calamita del terrorismo di Al Qaeda e il regime baathista non era certo
finito con Saddam: è andato underground e si è alleato con l’Isis del
califfo Abu Baqr Baghdadi mettendo a segno i risultati che sappiamo.
La
sanguinosa partita siriana, almeno in questo primo tempo durato 5 anni
di massacri e crimini di guerra, 250 mila morti e milioni di profughi,
l’ha decisa la Russia non l’Occidente con i suoi ambigui e inefficaci
alleati sempre pronti a flirtare con i jihadisti i cui affiliati sono
arrivati a fare stragi nel cuore della Francia. A proposito: dove sono
finiti i raid punitivi di Hollande che dovevano abbattere il Califfato?
Forse li riserva al prossimo round in Libia per sostenere il generale
filo-egiziano Khalifa Haftar.
Ma in Siria siamo appunto al primo
tempo che forse non è neppure finito perché l’arbitro, cioè l’Onu, deve
ancora trovare un accordo a Ginevra tra le fazioni. La tregua la
decideranno loro, non soltanto gli Usa e la Russia che a Monaco ha dato
una mano a Washington a contenere gli alleati turchi e sauditi, assai
frustrati nei loro obiettivi politici e militari.
Saranno le
fazioni combattenti dei ribelli siriani a dire l’ultima parola
sull’accordo «quando comincerà il cessate il fuoco e quando finirà», ha
dichiarato George Sabra membro della Alto Consiglio dell’opposizione.
Perché la questione è evidente a tutti: anche se venisse accettata, e
per ora le fazioni filo-saudite l’hanno rifiutata, l’intesa di Monaco
non darà inizio a una tregua totale ma soltanto parziale.
Dal
cessate il fuoco sono esclusi l’Isis e il gruppo Jabat al Nusra
affiliato ad Al Qaeda, ritenuti dall’Onu gruppi terroristici. Il
problema è che i russi e Assad assimilano ad Al Qaeda anche altre
fazioni e non esiteranno a bombardarle. Lo si è capito perfettamente
alla fine di dicembre quando un raid aereo russo alla periferia di
Damasco ha fatto fuori Zahar Alloush, leader del movimento Jaysh al
Islam, uno dei principali gruppi sostenuti dall’Arabia Saudita.
Mosca
- temono gli americani ma anche turchi e sauditi -utilizzerà la
settimana prima del cessate il fuoco per aiutare le truppe di Damasco a
ottenere altre conquiste territoriali: questa non è un’ipotesi ma una
certezza, perché l’obiettivo strategico è quello di tagliare fuori
Aleppo dai rifornimenti dei ribelli e liberare la direttrice tra il Nord
e Damasco. La guerra siriana, nonostante gli annunci, n on si ferma a
Monaco.