il manifesto Alias 28.2.16
Céline, il pigmalione igienico-morale
Louis-Ferdinand
Céline: escono, da Adelphi, «Lettere alle amiche». Negli anni trenta
Céline ha rapporti amicali e carnali con molte donne: che il suo cinismo
tratta, insieme, con sordida opacità e leggerezza
di Massimo Raffaeli
Nello
sguardo di Louis-Ferdinand Céline, che era quello di uno gnostico o
forse di un cataro, la pésanteur e la grace, sordida opacità e
leggerezza lievitante, si spartivano equamente il campo della
percezione: da un lato lo investiva il peso di un mondo asservito alla
carne, agli appetiti elementari (gli stessi che murano il fosco
orizzonte del Voyage o di Mort à crédit) dall’altro lo smaltiva uno
stile pulsionale ma stilizzato al ritmo dello spasmo interiore, quasi
una musica dell’essere, sussultante e compulsiva, portata ai limiti
della gratuità. Infatti, per autoassolversi, Céline giurava di non avere
idee e si vantava altresì di una sua invenzione esclusiva, l’emozione
stilizzata in pagina, la petite musique, la danza in prosa. È noto che a
Parigi, negli anni trenta, si appostava nella scuola di danza di Madame
Alessandri come un Degas vizioso, dove oggetto della sua scopofilia era
il corpo delle giovanissime ballerine, solo linee incise e muscoli
vibranti, come è noto che elesse a donne della propria vita due
danzatrici di plastica eleganza, prima l’americana Elizabeth Craig, cui è
dedicato il Voyage, poi Lucette Almanzor detta Lili, che gli sarà
vicino da compagna/moglie/musa negli anni della guerra, della prigionia
in Danimarca e nell’esilio terminale di Meudon.
Nell’interregno
fra Elizabeth e Lili (il che significa fra il successo clamoroso del
Voyage, 1932, e la pubblica infamia di Bagatelle per un massacro, il suo
vomito antisemita del 1937) Céline ha rapporti amicali, sentimentali e
carnali con un cospicuo numero di donne e ne reca ampia traccia il
volume Lettere alle amiche (a cura di Colin W. Nettelbeck, Adelphi,
«Piccola biblioteca», pp. 257, euro 15.00) che esce in italiano nella
splendida versione di Nicola Muschitiello, un poeta già allievo di Guido
Neri e rinomato traduttore fra gli altri di Baudelaire. Sono circa
centoquaranta missive indirizzate a una decina di corrispondenti, un
microuniverso cosmopolita di donne in genere più giovani di lui che ha
appena valicato i quarant’anni, il dottor Destouches, medico nella
banlieue rossa di Clichy, che ancora stenta a firmarsi in privato
Céline. E fra costoro spiccano: Erika Irrgang, studentessa tedesca e
futura scrittrice; Lucienne Delforge, pianista di caratura
internazionale, giovanissima, l’unica forse che gli abbia suscitato
qualcosa di simile all’amore nel senso corrente; Evelyne Pollet,
giornalista e scrittrice di Anversa, una sua fan, e però di vena
intimista, che nel dopoguerra ritrarrà dal vero la loro relazione nel
romanzo Escaliers; Karen Marie Jensen, ballerina danese, sua eterna
confidente nonché tramite bancario dei diritti d’autore depositati, in
lingotti d’oro, a Copenaghen, dove Céline verrà arrestato nel dicembre
del ’45 per l’accusa di collaborazionismo; infine colei che è cifrata
nel libro con «N.», un’ebrea austriaca, ginnasta dal fisico scultoreo,
legata agli ambienti della psicoanalisi ed in particolare ad Annie, l’ex
moglie di Wilhelm Reich.
Con rare eccezioni, l’atteggiamento di
Céline è costante e per sé tiene la parte di un Pigmalione che prodighi
consigli d’ordine igienico e morale chiedendo in cambio affetto e una
disponibilità fisica indenne comunque da legami ufficiali o, peggio, da
pretese matrimoniali. In altri termini, egli è il cinico che conosce
tutto della vita e non si fa più illusioni ma è un cinico che raccomanda
alle sue donne (il tono è sempre quello di chi si rivolge a delle
protette o a delle elette) un matrimonio borghese e rassicurante il
quale garantisca loro un culto spregiudicato del corpo e la piena
libertà di goderne. Nella igiene raccomandata dal dottor Destouches non
rientrano né il pensiero astratto né la soverchia concretezza di una
gravidanza. Questo il consiglio profilattico e ben paradossale che dà ad
Erika il 21 giugno del ’32: «Usi tutte le sue armi, tutt’insieme,
tutte, il sesso, il teatro, la cultura, il lavoro. Ma si mantenga in
salute. Niente amore senza preservativo, ALTRIMENTI DA DIETRO».
Céline,
mascherandosi da vecchio inerte e acciaccato, da nichilista cui il
futuro è per sempre ostruito, non lesina rilievi sul presente e tende a
usare le sue donne (pari a chiunque altro, sappiamo dall’epistolario)
come specchio ustorio e barra d’appoggio per riflessioni che soltanto
nei libelli o nei romanzi verranno totalmente stilizzate: alla Pollet,
chiedendole riproduzioni di Bosch e di Brueghel, raccomanda di attenersi
nello stile a un «tono irresistibil»”, a «N.» confessa interessi
freudiani e domanda una copia di Trauer und melancholie, alla Jensen,
reduce da un viaggio negli Stati Uniti all’inizio del ’37, comunica di
essere passato dalla Scuola di Balanchine e ribadisce la passione
rapinosa, quasi una coazione voyeuristica, per le ballerine: «Lì sì che
ci sono belle donne! Oh! Oh! Una meraviglia! Che agilità! Che miracolo!
Proprio al limite estremo dello spirito! La raffinatezza del corpo in
maniera assoluta!». Ogni altro rilievo, ogni notizia concernente la
letteratura, nel prosieguo di quella che ormai è una carriera, rimane
desultorio o sullo sfondo, e infatti si pronuncia en passant anche su
argomenti ideologici e politici (più che altro per compatirsi e
autoassolversi) così sbadatamente accostati che il carteggio, ad
esempio, con «N.» viene chiuso da una gaffe a dir poco criminale: nel
febbraio del ’39, alla notizia della morte del marito di lei, un ebreo
annientato nel campo di Dachau, il firmatario di Bagatelle non ha altro
da addurre se non l’elenco delle persecuzioni di cui il medico
Destousches sarebbe vittima (da parte di comunisti ebrei, o viceversa)
nel dispensario di Clichy, concludendo la lettera con un ineffabile
«Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo! Qui siamo
letteralmente invasi, sa, e per giunta ci esortano apertamente alla
guerra».
Va detto per inciso che «N.» si chiamava in realtà Cillie
Pam e che il suo nome è già svelato nella biografia Céline. Entre
haines et passion di Philippe Alméras del ’94 edita in Italia da
Corbaccio tre anni dopo. Qui il curatore Nettelbeck, nella introduzione
come nelle note, è invece costretto al silenzio perché Cillie Pam,
ancora viva, non intende comparire col suo nome nelle Lettres à des
amies che escono da Gallimard («Cahiers Céline», n. 5, una collana di
contributi documentari e specialistici) nell’ormai lontano 1979: fatto
sta che oggi Adelphi ne propone testo e apparati pari pari ignorando
decenni di filologia céliniana e, nel qual caso, il volume complessivo
delle Lettres (1907–1961) edito nella Pléiade, 2009, a cura di Henri
Godard con la collaborazione di Jean Paul Louis. Un simile e piuttosto
discutibile anacronismo editoriale non toglie che Céline rimanga Céline
specie se doppiato da un autore del rango di Nicola Muschitiello,
appunto un Céline dell’eterno femminino, l’astuto cascamorto, il
guardone, l’uomo della assoluta pesantezza che scruta e allucina nel
corpo femminile, nella sua stilizzazione più compiuta, l’incarnazione
della musica. O, meglio, di una utopia artistica finalmente libera dalla
legge di gravità, dal peso delle cose e degli esseri in terza
dimensione.
Poco dopo il Voyage, mettendo mano alla farsa grossa
dal titolo L’Eglise, Céline vi aveva introdotto il passaggio,
autoriferito, che vale una poetica e suona più o meno in questo modo:
«Ah Ferdinand! finché vivrete, voi andrete tra le gambe delle donne a
chiedere il segreto del mondo!