il manifesto Alias 27.2.16
Jacques Derrida, l’arte di un pensiero invisibile
Filosofia.
Il problema della scrittura, a cominciare dalla firma, alla retorica
del «tratto», fino alla presenza dell’arte nel pensiero del filosofo
di Gianluca Pulsoni
Alcune note di lettura per Pensare al non vedere
Derrida:
nel mondo intellettuale contemporaneo, chi non si è mai imbattuto nel
suo nome, chi almeno una volta non ne ha parlato, scritto, o discusso?
Tutti – ma se non tutti, tanti – l’hanno interpretato e utilizzato e
persino ne hanno stravolto a piacimento le teorie e lui, in quanto
pensatore, è certamente stato uno degli ultimi a esercitare questo
fascino e questa efficacia. Tutto questo è sicuramente avvenuto fino
alla morte, cioè al 2004, perché negli ultimi anni, quantomeno in
Italia, sembra che il lavoro e la voce del francese siano passati
pressoché sotto silenzio. O meglio: la sparizione della sua immagine
pubblica ha lasciato il posto al vuoto, a noi, al nostro rapporto
diretto con le sue tracce, i suoi libri, la sua ricerca, rivelando in
pieno una complessità immane che distanzia, una complessità che però fa
rima con necessità e novità, perché si tratta di un’opera che sembra
ancora anticipare i tempi e si mostra ancora tutta da scoprire – e qui,
ora, viene forse fuori una voce a suggerire: torniamo a leggere Derrida,
ma a leggerlo con l’attenzione che merita, come un classico.
In
merito, una occasione propizia può sicuramente essere l’ultima
pubblicazione in ordine di tempo del lavoro del nostro da parte di Jaca
Book, la casa editrice di Milano che da tempo si occupa di diffondere da
noi il pensiero dell’autore francese: Pensare al non vedere. Scritti
sulle arti del visibile. A cura del filosofo e traduttore Alfonso
Cariolato (suo, inoltre, l’importante saggio introduttivo), questa
edizione italiana della raccolta di interventi di diversa forma e per
diverse occasioni che il pensatore ha scritto e detto nel corso di molti
anni può senza dubbio funzionare come una sorta di ideale introduzione o
preparazione al Derrida più teorico sulle questioni intorno
all’immagine e dentro le trame del visibile – e qui il riferimento va
soprattutto a La verità in pittura, dove sono articolate e presentate le
nozioni fondamentali e continue del suo pensiero sull’arte.
Per questo, anche, val la pena presentare alcune possibili note per meglio avvicinarsi alla lettura di questa raccolta.
La scrittura, la firma
Nell’affrontare
Derrida il primo problema è senza dubbio quello della sua scrittura,
così spesso densa e a tratti oscura. La questione si ripresenta anche in
questi interventi sulle arti del visibile, dove però si offre, forse,
una possibile soluzione.
Nel suo saggio introduttivo, Cariolato
scrive: «Non si tratta di pensare il non vedere nel senso di darlo a
vedere, di rendere infine visibile l’invisibile – soprattutto non
questo. Piuttosto: che pensiero sarà un pensiero meno obbligato dalla
classica analogia con la vista, dalla metafora della luce di contro
all’oscurità, del far luce, del rendere chiaro, del far vedere ciò che
comunque è già nell’orizzonte della vista? Non un pensiero che scelga
l’oscurità in luogo della luce, operando così una semplice inversione,
ma un pensiero che tenti – con uno scarto rispetto a ciò che è dato
vedere, al visto – di pensare il non vedere.»
Da qui si potrebbe
suggerire che quella di Derrida scrittore sia un’etica della scrittura
in relazione a tale sforzo, e cioè un esercizio teso a tradurre
l’illeggibilità di determinate questioni attraverso una certa
scientificità. Come a dire: se cerco o teorizzo x, non posso che di
conseguenza piegare il mio linguaggio alle condizioni poste da una tale
esigenza.
Ora, premesso questo – qualcosa che ovviamente esclude
gli scritti nel libro che per determinate ragioni sono più scorrevoli
(ce ne sono molti) – si può arrivare a focalizzare l’attenzione sulla
importanza della firma come nozione, qualcosa che è alla base di molte
riflessioni presenti in questo volume. E qui è Derrida a parlare: «Non
basta semplicemente scrivere il proprio nome per firmare. Su un modulo
di immigrazione si scrive il proprio nome e poi si firma. La firma è
dunque altra cosa rispetto a un nome semplicemente scritto. È un atto,
un performativo mediante il quale ci si impegna in qualcosa, con il
quale si conferma in maniera performativa che si è fatto qualcosa – che è
stato fatto e che sono io che l’ho fatto. Una simile performatività è
assolutamente eterogenea; è un resto esterno a tutto ciò che nell’opera
significa qualcosa. Qui vi è un’opera – lo affermo, lo controfirmo. Vi è
un esserci [être-là] dell’opera che è più o meno l’insieme degli
elementi semantici analizzabili. Un evento ha avuto luogo.»
Come un metodo sperimentale
Ora,
data la firma come inizio, l’impressione è che si possa poi risalire a
tutte le nozioni e suggestioni potenzialmente collegabili che Derrida
espone o articola – come, per esempio, quella assai particolare di
tratto. Ma a questo punto, come logico, occorre fornire indicazioni sul
lavoro del pensiero del nostro. E cioè: qual è il movimento che lega il
tutto, quale la sua qualità prima?
Sia che si tratti di
considerazioni di carattere più generale sulle tracce del visibile – la
prima parte del libro – sia che si tratti di tutti gli interventi
intorno alla «retorica del tratto» in relazione alla pittura e al
disegno – la seconda e più corposa parte del libro (qui leggiamo Derrida
su questioni estetiche e teoriche ma anche su numerosi artisti, per
esempio Colette Deblé, Salvatore Puglia, Valerio Adami, Jean-Michel
Atlan) – sia ancora che si tratti di quanto scritto e detto dal francese
su fotografia, video, cinema e teatro – la terza parte del libro (qui
si trovano molte riflessioni teoriche relative alla «spettralità
dell’immagine» e testi sui fotografi Shinoyama Kishin, Frédéric Brenner,
il videoartista Gary Hill, ma anche sul teatro come per esempio su
Daniel Mesguich) – ciò che sembra rimanere una costante è come il
pensiero all’opera di Derrida abbia la forza e la forma di uno scavo
continuo e sistematico che separa gli elementi di una trama di segni e
significati, approfondisce le loro relazioni, ne individua i punti
critici. Uno scavo il cui nome è forse quello – celebre – di
decostruzione, e che non può che configurare lo stesso pensiero come
azione invisibile e suggerire, alla fine, una analogia tra la
comprensione filosofica di un Derrida e la metodologia sperimentale di
un Galileo. Forzatura? Forse. Ma se si presta ascolto al pensatore
francese, se si leggono le pagine di questo libro, quanto si percepisce
dal montaggio di osservazioni, ipotesi, verifiche, formulazioni – sempre
incessante, sempre mancante – non sembra molto lontano da certo
cimento.
Come se Derrida fosse una sorta di fisico del pensiero.
Perché l’arte
In
ultimo, vale la pena entrare in merito alla presenza dell’arte nel
pensiero di Derrida – o meglio: porre una considerazione, delineare una
traccia.
Ipotizziamo: a differenza di altri campi del sapere e
dell’agire umano, è forse qui che si muove meglio la decostruzione
derridiana – perché meno vincolata da strutture e sovrastrutture, perché
in relazione potenziale più diretta con quanto dell’immagine si sottrae
alla rappresentazione, perché più in grado di rivelare la soggettività
di chi vede e di chi parla.
Di tutto questo è forse rivelatore
l’ultimo scritto presente nella raccolta. Uno scritto, se si vuole,
autobiografico. Uno scritto bellissimo, del 2004.
Invitato da La
Quinzaine littéraire a dire la sua in merito a un’indagine rivolta a un
centinaio di autori – tema: «Pour qui vous prenez-vous? [Per chi vi
prendete? / Per chi si prende?]» – Derrida riesce in poche righe a far
capire come l’elaborazione di una immagine di sé, esempio limite della
creazione di qualsiasi immagine (aggiungiamo noi), non possa che finire
in una sorta di non-finito, e quindi l’arte – in questo caso – non possa
che essere intesa come azione tesa a questa sospensione, al di qua e al
di là di ogni estetica: «Non come il sintomo di una “verità”, la mia,
quanto piuttosto come una preghiera, quella di cui Aristotele diceva
così giustamente che non è “né vera né falsa”».