Il manifesto Alias 27.2.16
Scritti sull’arte
Saggi.
Pubblichiamo due estratti dal libro "Pensare al non vedere", sull'idea
di tratto e a proposito del lavoro dell'artista Jean-Michel Atlan
di Jacques Derrida
Esce in questi giorni per Jaca Book Pensare al non vedere (euro 30), un
volume che raccoglie gli scritti sulle arti del visibile di Jacques
Derrida, nell’edizione stabilita da Ginette Michaud, Joana Masó e Javier
Bassas (2013). L’edizione italiana e la traduzione sono a cura di
Alfonso Cariolato. Il libro propone un’ampia selezione dei testi
dedicati alle arti nell’arco di venticinque anni (dal 1979 al 2004).
Difficilmente reperibili perché disseminati in cataloghi, riviste,
volumi collettanei o addirittura inediti, i testi sono stati rivisti e
ricontestualizzati dai curatori e ripartiti in tre sezioni: la prima
affronta il primato filosofico del visibile nell’arte; la seconda
raggruppa testi realizzati nell’ambito di collaborazioni con diversi
artisti e riguarda specificamente il disegno e la pittura; la terza
raccoglie scritti dedicati alla fotografia, al video, al cinema e al
teatro. Chiude il volume un intenso intervento in cui Derrida, a due
mesi dalla morte, parla del suo complesso rapporto con la propria
immagine. Un’utilissima bibliografia e filmografia, infine, permettono
al lettore di orientarsi nella vasta produzione del filosofo riguardante
le arti. Qui pubblichiamo due estratti dal libro, sull’idea di tratto e
a proposito del lavoro dell’artista Jean-Michel Atlan – con, annessa,
la questione del nome nell’arte. «A lato» c’è poi una riflessione del
filosofo francese Jean-Luc Nancy su Derrida e l’arte.
Non
dovrei solamente fare come se il nome di Atlan fosse scomparso,
dimenticato, inghiottito, annegato sotto Atlantide. Ma come se le opere
del suddetto Atlan avessero perduto il loro titolo. Il loro nome proprio
e il nome del loro creatore. Come se, alla lettera, non mi dicessero
niente. Come se, piuttosto, non mi autorizzassero a nulla, come se non
mi concedessero in ogni caso l’autorità di non dirne nulla. D’altronde,
come descriverle? Mi si permetta qui di risparmiarmi una lunga
dissertazione teorica, ma ironica, sulla descrizione di un quadro.
Quando penso che alcuni osano o pretendono di farlo, descrivere,
abbozzare la minima descrizione di un quadro! Èsempre impossibile,
dovrebbe essere vietato descrivere un quadro, «constatarlo», se non
ordinando: andate ad ascoltare questo quadro che non è più un quadro,
che non ha più la stabilità placata di un quadro, sentite il suo
incantesimo, la sua preghiera, le sue ingiunzioni o i suoi comandamenti
(tale quadro imperioso somiglia talvolta a una tavola dei comandamenti),
vibrate alla vibrazione del suo grido, e poi andate a vedere, se
potete, quelle linee, quei tratti, quelle bande, quei nodi, quei passi
di danza. Inoltre, come descrivere, e come nominare, un colore? Come
farlo senza figura, senza svolta tropica, ma alla lettera,
letteralmente? Per esempio il suo «nero» che non è nero, che è nero al
di là di ogni nero conosciuto? Da un individuo all’altro, da una cultura
all’altra, come intendersi per identificare e soprattutto per chiamare i
colori, per stabilizzare e codificare i nomi dei colori, in particolare
nella Bibbia? Come insegnare i nomi dei colori a un cieco dalla nascita
dopo l’operazione che gli rende la vista? Mi trovo qui, con Atlan,
mutatis mutandis, io, come un cieco operato, di fronte alla stessa
impossibilità di dire nel momento di recuperare la vista davanti a uno
spettacolo inaudito. Come se, dunque, le opere del suddetto Atlan non
portassero mai un titolo. Alcune tele di «grande formato» si concedono,
certo, il «senza titolo» come titolo. Da qui mi è venuta probabilmente
l’idea. Non più parole, mai più. Senza fiato. Afasia. Anche se già il
nome Asie , il fonema Asie, le lettere dell’Asie, dall’altro lato del
Medio Oriente biblico, venivano a stagliarsi per risuonare, riecheggiare
e riflettersi in uno dei titoli (Les Miroirs de l’Asie [Gli specchi
dell’Asia] (1954), il più chiaro e il più blu di tutti questi «grande
formato»: come se, quasi al centro, tra vaghi serpenti eretti in modo
quasi simmetrico, per rinviarsi la loro immagine faccia a faccia, una
specie di pesce in immersione forse cristica, una di quelle numerose
figure animali o zooteomorfiche della raccolta, tendesse ancora uno
specchio al sole – a meno che non sia alla luna. Ma ecco che mi ritrovo
ancora a descrivere, malgrado la promessa o il divieto).
(…)
Ogni
pittura, ogni pittura in quanto tale, e anche se in apparenza porta e
sopporta, come suo «soggetto», un titolo, cioè un nome (e i titoli senza
sostantivo sono rari, che i nomi siano comuni o, come capita spesso
qui, che siano propri, o ancora che esitino tra il proprio e il comune,
includendo sempre in ogni caso qualche nome proprio nel nome comune: Le
Grand Roi Atlante [Il Grande Re Atlante], Tanit, Calypso III, Baal
Guerrier [Baal Guerriero], Pentateuque, Le Tao , La Redoutable, Les
Miroirs de l’Asie, Jéricho, Sodome, La Kahena), ogni pittura degna di
questo nome, dunque, in quanto tale, ha la vocazione di fare a meno del
nome, voglio dire del titolo. Qui si esporrebbero la sua essenza e il
suo spazio, la spaziatura stessa della sua spazialità – e letteralmente
il suo colore. Da qui l’energia della sua danza e del suo canto. Là
dove, facendo a meno del nome, de-nominandosi, essa chiama ancora e dà
il suo luogo al nome. Irresistibilmente. Essa non si chiama con questo o
quel nome, essa chiama un nome.
Pag. 245–246, 248
In fondo
partirò, se vuole, dal «niente da vedere» – dal «niente da vedere» nel
senso, al tempo stesso, dell’accecamento e della mancanza di rapporto.
Quando si dice: «Non c’èniente da vedere», ciòsignifica: «questo non ha
rapporto con quello» – ed èanche un modo per disegnare il campo
dell’incompetenza. Nel corso di questi, diciamo, ultimi quindici anni,
mi ècapitato di essere provocato in qualche modo dall’esterno – infatti,
non lo avrei mai fatto spontaneamente – a scrivere sul disegno. L’ho
fatto (…) nel contempo esponendomi e proteggendomi, vale a dire: ho
l’impressione che tutte le volte che ho parlato del disegno fosse un
modo per evitare di parlare della pittura. In uno dei testi raccolti in
un’opera intitolata La verità in pittura, ci si accorge assai presto
che, appunto, non parlo mai della pittura, cioèdel colore, della macchia
di colore, ma di ciòche sta intorno: il disegno, ma anche i margini, la
cornice; cio che, trovandosi all’esterno del disegno, viene in qualche
modo a riempire o determinare l’interno; ciòche inscrive il disegno su
una superficie, che lo eccede o, sul mercato della pittura, del disegno,
ciòche lo inscrive in speculazioni che sono tanto quelle del mercato
del disegno quanto quelle delle speculazioni teoriche, dei discorsi.
Bene, io sto nel campo del discorso, vale a dire che quando vado verso
le parole per parlare del disegno o della pittura, questa èanche una
maniera di sfuggire a ciòche so di non poter dire a proposito del
disegno stesso. Perchéin fondo – poichéla questione che qui viene posta a
tutti i partecipanti e: «Che cos’èil disegno?» – la mia risposta e:
«Non so cosa sia il disegno». E, continuamente, sono tentato di
ricondurre il disegno verso l’insignificante, cioèverso il tratto. Ed
èin questo modo che, incessantemente, sono stato portato a ricondurre la
mia preoccupazione del disegno verso la mia preoccupazione piùantica e
piùgenerale del tratto di scrittura, della linea della scrittura nella
misura in cui essa consiste in un reticolo o sistema di tratti
differenziali.
Il tratto differenziale (…) è, naturalmente, il
tratto apparentemente visibile che separa due pieni, o due superfici, o
due colori, ma che, in quanto tratto differenziale, èciò che permette
ogni identificazione e ogni percezione. Allora, il tratto differenziale,
metaforicamente, può designare allo stesso modo ciòche all’interno di
qualsiasi sistema, grafico o meno, grafico in senso comune o meno,
istituisce delle differenze, per esempio in una parola, in una frase – e
la linguistica saussuriana –, il tratto differenziale, il tratto
diacritico, è ciòche permette di opporre lo stesso e l’altro, l’altro e
l’altro, e di distinguere. Ma il tratto in quanto tale, esso stesso in
quanto tratto differenziale, non esiste, non ha pieno. Se volete, tutto
il pensiero o la teoria della traccia che avevo cercato di elaborare
senza un riferimento essenziale al disegno – sebbene in Della
grammatologia sia stata posta anche la questione del disegno in Rousseau
–, nondimeno, al di là del disegno propriamente detto, la traccia o il
tratto, designerebbe – in ogni caso, èciò che ho cercato di mostrare –
la differenza pura, la diacriticità, ciòche fa sìche qualcosa si possa
determinare per contrasto rispetto a un’altra cosa: l’intervallo, la
spaziatura, cio che separa. E allora ciòche separa – l’intervallo, la
spaziatura – non èniente in sé, non èné intelligibile ne sensibile, e in
quanto non èniente non èpresente, rimanda sempre ad altro e, di
conseguenza, non essendo presente, non si da a vedere. In fondo la più
grande generalità della definizione del tratto, cosìcome mi ha
interessato da molto tempo, e che dàtutto a vedere in fondo, ma non si
vede. Dàa vedere senza darsi a vedere. E dunque il rapporto con il
tratto stesso – con il tratto senza spessore, con il tratto
assolutamente puro –, il rapporto con il tratto stesso e un rapporto,
un’esperienza di accecamento. (pag. 160–162)