martedì 9 febbraio 2016

il manifesto 9.2.16
Sanders e Trump cercano la rivincita
Oggi tocca al «piccolo e innevato» New Hampshire. Resa dei conti tra i Repubblicani
Hillary Clinton si fa un selfie con i suoi elettori
di Luca Celada

LOS ANGELES Piccolo, innevato, al confine col Canada il New Hampshire (41° per estensione, 46° per popolazione, 1,3 milioni di abitanti) sarà oggi il secondo stato dell’unione a dare un responso nella campagna delle primarie americane.
Come in Iowa i risultati saranno analizzati in dettaglio per ogni indicazione sugli eventuali vincitori anche se alla fine i voti effettivi saranno poche centinaia di migliaia e l’ultima volta che il vincitore in New Hampshire è poi diventato presidente è stato Bush senior nel 1988 (l’ultimo democratico a farlo: Jimmy Carter nel 1976). Nel 2008 la vincitrice, di misura, qui fu Hillary Clinton, dopo una rimonta su Barack Obama.
Quest’anno i pronostici favoriscono piuttosto la «rivoluzione» di Bernie Sanders, ex governatore e senatore della vicina «repubblica socialista» del Vermont, uno stato, per dire, che per non deturpare il paesaggio vieta i cartelloni pubblicitari su tutto il territorio.
Ma sui progressisti del New Hampshire non farà presa solo il campanilismo. Hillary Clinton che è stata efficace nei dibattiti della scorsa settimana promette una possibile rimonta coadiuvata dall’imponente macchina elettorale e dal sostegno di molti quadri del partito.
La gara promette di riproporre, se non il testa a testa dell’Iowa, comunque un altro risultato conteso di una primaria inesorabilmente combattuta. E per Sanders è essenziale imporsi in modo chiaro e netto su un terreno amico dato che le successive primarie saranno nel South Carolina dove l’appoggio degli Afro Americani favorisce fortemente Hillary. Per i repubblicani la posta in palio è più complicata e cruciale, specie per alcuni candidati. I sondaggi vedono in prima posizione Donald Trump che ha l’occasione per riscattare lo smacco subito per mano di Ted Cruz in Iowa.
Rispetto a quello dell’Iowa l’elettorato del New Hampshire subisce una minore influenza dell’ala evangelica repubblicana e questo dovrebbe favorire il populismo «laico» del miliardario newyorchese. Ma la partita più importante si gioca alle sue spalle dove è Marco Rubio ad essere salito in seconda posizione nei sondaggi.
Il giovane senatore rampollo della diaspora cubano in Florida vorrebbe consolidare la propria posizione come candidato dell’establishment su cui potrebbero convergere i consensi e i finanziamenti di un partito che non vede di buon occhio né l’outsider autofinanziato Trump né l’indisciplinato ultra reazionario Cruz (e ne Ben Carson, il medico ultrareligioso che in ultima analisi però difficilmente potrà influire). Rubio che pure era assurto al senato di Washington come beniamino del Tea Party si approprierebbe ora volentieri del manto di moderato.
Ma per farlo ha bisogno di eliminare definitivamente gli altri pretendenti allo stesso titolo – i moderati, per davvero, Bush, Kasich e Christie che nelle ultime ore gli si sono affiancati.
Per questi tre governatori il voto di oggi potrebbe essere l’ultima chance per dimostrare di rappresentare una alternativa realistica in una gara oggettivamente troppo affollata. Per farlo Bush, l’ex «predestinato» caduto rovinosamente nei sondaggi e Kasich, il centrista governatore dell’Ohio, dovrebbero segnare quantomeno un dignitoso terzo posto. Chris Christie del New Jersey a questo punto è l’anello più debole.
Il New Hapmshire potrebbe plausibilmente rivelarsi il capolinea di alcune campagne minori e questo spiega la serrate manovre e gli attacchi incrociati degli ultimi giorni. Nell’ultimo (ennesimo) dibattito molti di questi sono stati rivolti a Rubio salito nei sondaggi fino ad occupare il secondo posto. Il quarantaquattrenne senatore è stato preso di mira in particolare dal fanalino di coda, Chris Christie, che lo ha accusato di supplire alla mancanza di esperienza con slogan e frasi preconfezionate dai consulenti d’immagine.
Non ha aiutato che il candidato di quelle frasi mandate a memoria ne abbia utilizzato svariate proprio nello stesso dibattito, ripetendole in continuazione tali e quali.
Alimentando l’aria di disperazione che circonda la sua campagna, Jeb Bush ha infine giocato apertamente la carta dinastica, presentandosi agli ultimi comizi accompagnato dalla madre, Barbara Bush che non ha potuto che dare al figlio la più alta raccomandazione di famiglia. Poi l’ultimo dei Bush ha dimostrato di non mancare di faccia tosta criticando l’intervento di Obama in Libia «perché la storia insegna che prima di intervenire in Medio oriente» occorre avere un piano preciso. E detto da un Bush….
Fra i litiganti, in parte, ha goduto proprio Trump che dopo l’accenno di (quasi) umiltà, balenato per un istante dopo la sconfitta in Iowa, ha ingranato la consueta marcia della vanteria strafottente dichiarandosi – a un certo punto – sicuro di poter vincere in New Hampshire «anche se me ne andassi a metà campagna». I comizi di Trump rimangono rappresentazioni surrealiste il cui soggetto principale sono le doti di vincitore dello stesso candidato in base a sondaggi sciorinati dal medesimo. Un rituale apparente affatto intaccato dal fatto che l’unico risultato attualmente al suo attivo sia invece proprio la sconfitta rimediata in Iowa.
Né servono i dibattiti ad approfondire posizioni programmatiche del tutto elusive. Al massimo i confronti fra repubblicani hanno preso la forma di gare per mostrare i muscoli. Sabato ad esempio la competizione ha riguardato la tortura e in particolare il waterboarding che Ted Cruz (premettendo che non si tratta di tortura) ha detto di voler reintrodurre per «casi speciali». La sfida è stata subito raccolta da Trump che ha tuonato: «Tagliano le teste ai crsitiani…è dal medioevo che non assistiamo a cose simili. Non solo userei il waterboarding, ma applicherei di molto peggio». È il genere di dichiarazione che prevedibilmente provoca scrosci di applausi nei suoi comizi ma che nel dibattito è parsa suscitare anche qualche costernazione.
E col passare del tempo sembrano incrinarsi ulteriormente proprio i rapporti fra il gigioneggiante populista e i titolari del partito che almeno nominalmente rappresenterebbe. L’altro giorno Trump è stato apertamente fischiato dal pubblico scelto dal comitato centrale per il dibattito, dopo un invito particolarmente ruvido a «stare zitto» rivolto a Jeb Bush.
«Tipico pubblico di lobbisti», ha sbottato Trump, che ha aggiunto: «mi odiano perché non prendo i loro soldi», dimostrando a modo suo l’istinto dialettico che ha fatto la sua fortuna.
I repubblicani invece sono meno che divertiti. Il miliardario è stato da ultimo oggetto di una campagna critica dalle pagine del National Review, storica rivista conservatrice fondata da William F. Buckley che ha ospitato una serie di infuocati editoriali anti Trump fra cui quello firmato dal direttore Rich Lowry che lo ha definito un «opportunista politico, filosoficamente disormeggiato disposto a distruggere il consenso ideologico conservatore rappresentato dal Gop nel nome di un populismo volante dalle velleità dittatoriali«.
Parole che rendono il livello di urgenza – per non dire panico – diffuso nell’area tradizionale di un partito che spera nel dopo-New Hampshire per cominciare da domani a dipanare una dinamica ancora assai ingarbugliata.