il manifesto 7.2.16
Antropologia dell’assalto al cielo
Storia.
Per forgiare l’«uomo nuovo», il 1789 impose diversi rapporti tra
individui e collettività: «Rivoluzionari», di Haim Burstin per Laterza,
una analisi che, tuttavia, non spiega il Terrore
di Francesca Borrelli
La
rivoluzione non è un pranzo di gala: non a caso questa famosa frase di
Mao Tse-tung è ricordata nelle prime pagine del nuovo libro di Haim
Burstin, Rivoluzionari Antropologia politica della rivoluzione francese
(Laterza, pp. XVII-317, euro 25,00), che consiste, infatti, di una
riflessione impegnata sulla natura drammatica dell’evento
rivoluzionario, e di una meditazione accorata su chi siano davvero gli
attori di quell’avvenimento, i protagonisti del dramma. Passata l’epoca
dei furori ideologici e raffreddato il tema, oggi molti storici provano a
indagare la vicenda rivoluzionaria concentrandosi sulla sua dimensione
esperienziale.
Burstin – che sulla rivoluzione aveva già scritto
un poderoso volume concentrato su un quartiere parigino in quegli anni
(il Faubourg Saint-Marcel), oltre a pregevoli ricerche sui famosi
Sans-culottes – si sforza di sfuggire alla ricorrente tendenza a vedere
nei rivoluzionari degli idealisti sognatori di un mondo migliore o, al
contrario, dei machiavellici guastatori della douceur de vivre d’antico
regime. Per lo storico italiano, giustamente, i rivoluzionari non sono
angeli e nemmeno demoni ma semplicemente uomini che il vivere in
rivoluzione ha cambiato e plasmato. Sfuggire tanto al «catechismo»
dogmatico (che vede la rivoluzione come tappa ineludibile di un percorso
prefissato, orientato in direzione del «sol dell’avvenire») quanto alla
scomunica revisionista (che guarda alla rivoluzione come a un crogiuolo
malefico, brodo primordiale del totalitarismo) è possibile se, ci dice
Burstin, si imitano gli antropologi e ci si immerge, per quanto ci
consentono le fonti, nel «vissuto» rivoluzionario.
La chiave di
questa attitudine all’ascolto, di questa sorta di esplorazione dei
costumi, dei gesti degli umori e delle passioni dei rivoluzionari, è
infatti la tecnica antropologica dell’osservazione partecipante, un
avvicinare da presso l’agire rivoluzionario, che richiede, se non
proprio una relazione di tipo empatico (la Rivoluzione Francese, usava
dire Alphonse Aulard, pour la comprendre il faut l’aimer), almeno un
rapporto non repulsivo.
Oggi, scrive Burstin, che confessa di non
avere alcuna nostalgia «dei tempi avvelenati dello scontro ideologico,
dell’invettiva, dell’ostracismo, delle battaglie mediatiche, delle
delegittimazioni reciproche» e di ritrovarsi a suo agio nella più libera
dimensione post-ideologica del dibattito storiografico apertasi con la
caduta del muro di Berlino, questo è più possibile di ieri. C’è da
crederlo, visto che lui, allievo di Albert Soboul, alfiere della
storiografia marxista tra gli anni ’50 e ‘70, quegli scontri ideologici e
quelle battaglie ideali li ha vissuti personalmente.
Il risultato
principale di questa maggiore libertà o di quel disincanto che con
qualche velato imbarazzo gli rimprovera Claude Mazauric, ultimo
esponente della intepretazione ortodossa della scuola di Soboul, è uno
sguardo che attraversa senza scomporsi l’insieme delle contraddizioni
generate dalla tensione utopica di cui è permeata la rivoluzione: e che
perciò scruta con pari attenzione tanto l’urgenza del cambiamento quanto
le sorde resistenze che esso genera, l’entusiasmo rivoluzionario così
come la sua retorica, l’allargamento della democrazia proprio come la
proliferazione anarchica degli organismi, la febbre partecipativa e
insieme anche l’assenteismo, lo slancio rivoluzionario ma anche la
chiusura oligarchica, l’apprendistato alla democrazia e le tecniche di
prevaricazione delle minoranze militanti, le richieste di trasparenza
fianco a fianco all’ossessione del complotto, l’ebbrezza di una libertà
inaudita mescolata allo scatenamento della violenza più crudele.
Malgrado
la grande varietà dei temi toccati, il libro è una meditazione unitaria
e insistita su quella che Burstin non esita a chiamare la
civilizzazione rivoluzionaria: in sostanza, un modo particolare di
concepire il rapporto tra l’individuo e la collettività nel disperato
tentativo di forgiare un uomo nuovo. Da qui la centralità del tema della
rigenerazione nel configurare la particolare psicologia del
rivoluzionario, da cui dipende quella straordinaria energia propulsiva,
che arriva fino a configurare «l’assalto al cielo».
Identificato
l’oggetto dell’investigazione, Burstin dà avvio al suo periplo della
vita rivoluzionaria. Con onestà intellettuale e tentando di sfuggire al
rischio dell’oleografia, conduce il lettore non soltanto nell’assemblea
legislativa e nei club ma anche e soprattutto nelle sezioni, nelle
piazze, nelle manifestazioni, a volte segnate da terribili violenze, non
escluse le teste tagliate dei «nemici del popolo» innalzate sulle
picche.
In questa ricerca dell’esperienza vissuta in presa
diretta, Burstin si guarda bene dallo smarrire la rotta: si rifiuta cioè
di perdersi nella varietà umana, a suo tempo indagata dallo sguardo
spietato di Richard Cobb, allievo maudit di Georges Lefebvre e gran
narratore di imbroglioni e vigliacchi, esaltati e avidi, affaristi e
violenti. Quel che Burstin ci offre, scorrendo le figure dei popolani, è
in fondo la raffigurazione di un unico tipo umano ideale, reincarnato
in una moltitudine di esemplari, perché per lui la rivoluzione non è un
paesaggio mosso, in cui si possano individuare soggetti molteplici, di
diverso costume e orientamento, ma un unico, compatto blocco culturale,
un’essenza che si reincarna nei singoli e che ne configura la
personalità: nel bene e nel male, nelle passioni così come nelle
idiosincrasie.
Questa prospettiva, centrata sulla dimensione
idealtipica del rivoluzionario (e che perciò andrebbe qualificata forse
come sociologica, più che come antropologica) consente a Burstin di
introdurre il lettore, attraverso pagine affascinanti, nell’universo
della radicalità rivoluzionaria, una radicalità che consiste, spiega,
non tanto nella costruzione del futuro agognato quanto nella rottura
profonda con un passato rinnegato: che è, in via generale,
quell’aborrito antico regime che non deve poter più riemergere, ma che è
anche la vita che ognuno conduceva prima e a cui il rivoluzionario,
uomo nuovo, non può più tornare.
Il limite fondamentale di questo
orientamento sta, essenzialmente, nella difficoltà a spiegare in altro
modo che non sia l’ineluttabile deriva prodotta dall’ideologia (come
vuole lo schema interpretativo avanzato da Furet e riproposto, sia pure
in termini diversi, da Baczko) lo scivolamento progressivo nella
violenza, sino al Terrore. Considerare la Rivoluzione quasi come
un’entità, porta Burstin a espellerne il Terrore, quasi fosse un
soggetto «altro». Se la violenza diffusa viene interpretata come una
sorta di allargamento della legittimità prodotto da un diverso disporsi
dell’individuo rispetto alla sensibilità collettiva, Burstin pare più in
difficoltà a spiegare per questa via i massacri del settembre 1792; e
ancora di più gli è difficile offrire spiegazioni convincenti del
Terrore, per il quale viene tirato in ballo il vecchio rinvio a una
costellazione di concause (la guerra, la perdita dell’autorità, i
tradimenti, la carestia e l’ossessione del complotto).
Soprattutto,
l’insistenza con cui Burstin gira attorno a un’unica figura di
rivoluzionario finisce per mettere in ombra la divisione in diverse
fazioni, gli scontri personali, le tensioni dei gruppi contrapposti e in
una parola il conflitto politico infra-rivoluzionario. Burstin spiega
bene come la Rivoluzione sia stata anche (forse soprattutto) un nuovo e
sconvolgente allargamento della politica, ma non si cura di descriverla,
questa politica, di delinearne la struttura e la configurazione, ovvero
i modi con cui si inaugura una nuova, straordinaria partita politica
tra diversi centri di potere: l’Assemblea, la Comune di Parigi, la
stampa, la guardia nazionale, l’esercito, i club e, finché c’è stata, la
Corte. Un passaggio ineludibile, questo, se si vuole spiegare davvero
la violenza rivoluzionaria e, in prospettiva, anche il Terrore.