il manifesto 7.2.16
Ponzio Pilato, ipotesi e illazioni nella nebbia
Aldo
Schiavone, «Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria», Einaudi.
Storicamente inafferrabile, il ruolo svolto dal funzionario romano nella
passione di Gesù è oggetto di un’analisi oscillante, troppo
possibilista
Georges Rouault, «Cristo di fronte a Pilato», collezione privata
di Carlo Franco
Tra
storia e memoria muove l’ultimo libro di Aldo Schiavone: Ponzio Pilato
Un enigma tra storia e memoria (Einaudi «Storia», pp. 174, euro 22,00).
Centoquaranta pagine per ragionare sul funzionario romano che condannò a
morte Gesù verso l’anno 30 della nostra era, sotto il regno di Tiberio.
Lo studio storico dei resoconti della passione nei vangeli fronteggia
difficoltà gravissime, forse insormontabili. Lo dimostrano le divergenze
della ricerca moderna: ogni fase, ogni parola della vicenda è stata
discussa, accettata, respinta, riscritta. Una recente sintesi ha avuto
bisogno, per fare il punto, di oltre ottocento pagine (The Trial and
Crucifixion of Jesus. Texts and Commentary, a cura di D.W. Chapman e
E.J. Schnabel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015). Il libro di Schiavone è
invece agile: la documentazione è confinata in appendice, insieme alla
corposa bibliografia, e i tecnicismi sono poco invadenti. La scrittura,
condotta con mano sicura, si apre a sviluppi narrativi. L’indagine non
si limita ai problematici dati fattuali, ma si insinua nel non detto dei
testi, e soprattutto nelle intenzioni dei protagonisti. Ne consegue,
pur con cautele, che il piano di «ciò che avvenne veramente» è spesso
superato, a favore di inferenze suggestive e però irrimediabilmente
speculative. Osservazioni utili offre l’analisi della prassi
amministrativa romana, determinata ove possibile a governare con il
consenso delle élites (La Giudea romana e il lavoro del secondo
prefetto). Ma il riflesso di questi criteri non si lascia cogliere
facilmente nella vicenda di Gesù. La tradizione su Pilato induce a
credere che «il prefetto non doveva capire la religiosità giudaica»: lo
mostrano gli incidenti seguiti all’introduzione a Gerusalemme di
stendardi con l’effigie dell’Augusto (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica,
2.9.2-4) o alla collocazione nel Tempio di scudi dorati in onore di
Tiberio (Filone di Alessandria, Ambasceria a Gaio, 38, 299–305).
Giustamente
Schiavone indaga che cosa Pilato poteva sapere sulla storia e la
cultura della Giudea: è possibile, ma non sicuro, che gli giungesse
l’eco della storiografia greca, che andò poi a innervare l’acida
digressione di Tacito (Storie, 5. 2-10). Ignote le sue idee: che
condividesse il pragmatico scetticismo dell’aristocrazia romana è però
ragionevole. Soccorre l’immaginazione, che è virtù dello storico, da
usare con prudenza. Posto che «non sappiamo in quale lingua Pilato e
Gesù si parlassero», l’ipotesi che il prefetto sapesse l’aramaico (come
nel film The Passion) è destinata a restare tale. Le incertezze sullo
svolgimento degli eventi nel pretorio di Gerusalemme sono, come è noto,
fortissime: per ricostruire e interpretare gli atteggiamenti del
prefetto, Schiavone attinge a un piano «psicologico», velando il dettato
con frequenti formule attenuative. Nella sezione centrale del libro,
dedicata all’interrogatorio (non un «processo») di Gesù, si incontra una
sequenza di «è ragionevole supporre», «è probabile», «non vi è ragione
per non», «non vi è motivo di dubitare». Essa conduce oltre la soglia
del conoscibile, e dello storicamente accertabile. Le riflessioni su
Gesù e la sua «certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia», su
Pilato, che «è possibile fosse già rimasto colpito dalla predicazione
di Gesù», la cui personalità «doveva essergli apparsa, nel confronto
diretto, perturbante e inattesa», accompagnano una ricostruzione
indiziaria, che approda a toni talora pensosi: il dialogo tra i due «è
di una potenza simbolica senza eguali», e getta da secoli una luce
«abbagliante in modo quasi insopportabile». Ma dopo aver definito quella
scena «storicamente persuasiva», Schiavone aggiunge enigmaticamente:
«Che sia anche acceduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per
giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra
tutte, la cosa meno importante».
Il lettore resta perplesso: si
intende che il contenuto di «verità» del soggetto è inafferrabile.
Sequenze di possibilistici verbi al futuro scandiscono passaggi
importanti: il grido dei sacerdoti davanti alla proclamazione di Gesù
come figlio di Dio «avrà sicuramente colpito il governatore», il quale
«lo avrà comparato d’istinto al comportamento del prigioniero» e «si
sarà chiesto» se Gesù fosse uno dei «cosiddetti uomini divini» così
frequenti in Oriente. Che le questioni del giudaismo fossero estranee
alla mentalità romana, che Pilato non fosse «in sintonia con la
religione ebraica» è credibile, come si è detto; più difficile pensare
che egli «subito si era reso conto della diversità di Gesù»: tale è il
senso del racconto evangelico, che però ha a che fare con la memoria o
con la teologia più che con i fatti. Le sottili esegesi proposte da
Schiavone oscillano tra la ricerca storica e la filosofia, se non la
teologia. Certo, il racconto dei vangeli non è un «documento», ma un
intreccio di memorie orali, profezie «compiute», rielaborazioni
successive. Coerentemente, Schiavone non attribuisce valore storico
assoluto agli eventi che analizza. E il carattere non confessionale del
suo discorso permette qualche provocazione. Così circa la scena
dell’Ecce homo: «Non si può credere a una sola parola di questo
racconto». Sullo sfondo sta la critica neotestamentaria: il racconto
della passione fu curvato dalla tradizione in una forma che aggravava la
responsabilità giudaica e alleggeriva quella romana. Schiavone
attribuisce assoluta importanza a eventi di cui pure invita a dubitare
radicalmente. Si veda la famosa domanda di Pilato sull’essenza della
«verità» (Giovanni, 18.38). «Verità» è parola tipicamente giovannea,
però si esita a considerare la frase solo una «falsificazione della
memoria». A tratti il discorso si fa ispirato: «nella sua disadorna
essenzialità, la prosa di Giovanni raggiunge risultati di grande
efficacia espressiva. Nulla, se non un corpo ferito e oltraggiato: e in
quel corpo, la maestà e l’onnipotenza di Dio, scempiate dai carnefici».
Si percepisce un moto alterno, che segue e poi rigetta la logica del
testo analizzato: in una domanda di Pilato a Gesù si coglie
«un’esplicita risonanza metafisica», propria di un uomo che «non senza
apprensione, sta intuendo la presenza dell’ignoto innanzi a lui». Ma
Pilato la ha «pronunciata davvero»? Molto spinge a «ritenerlo
possibile». Però circa la successiva risposta di Gesù si annota: «è
possibile che Gesù non abbia mai pronunciato quelle parole». Il
calibratissimo ma sfiancante oscillare dell’argomentazione coinvolge
anche la filologia. La domanda di Pilato ai giudei («Crocifiggerò il
vostro re?»: Giovanni, 19.15) è forse un’affermazione: «Quel punto
interrogativo è probabilmente l’aggiunta di un copista troppo zelante,
se non è stata voluta dallo stesso autore del Quarto vangelo». La
filologia è destrutturata: giacché se è vera la prima ipotesi, il testo
potrebbe essere corretto, ma è strana l’idea di «correggere» Giovanni
nel caso della seconda alternativa.
His fretus, l’autore giunge al
centro del libro: posto che la condanna di Gesù era «necessaria» al
compimento del piano messianico, tra l’accusato che non si difese e il
magistrato che non lo voleva mettere a morte si strinse una sorta di
«patto» sul quale il vangelo di Giovanni però tace. Anche in questo
caso, un’interpretazione più filosofica che storica. Del resto Schiavone
ammette «l’impressione di una insuperabile ambiguità» che emana dalla
figura di Pilato, «quasi la sua cifra non potesse essere altro
dall’indefinito, dalla nebbia».