il manifesto 3.2.16
Venti di guerra sulla Libia, dialogo al collasso in Siria
Stato
Islamico. Dal vertice di Roma Gentiloni e Kerry mettono sul tavolo
l'intervento nel paese nordafricano, che attira nuovi adepti con il
denaro. A Ginevra le opposizioni cancellano il meeting con l'inviato Onu
di Chiara Cruciati
Mille
dollari per vestire i panni di “soldato del califfo”: è il denaro che
il braccio libico dello Stato Islamico offrirebbe a africani da Ciad,
Sudan, Mali per rafforzare la propria presenza nel paese. Lo rivela
l’intelligence libica: puntare ai paesi poveri è una strategia vincente.
Secondo il colonnello Ismail Shukri, capo dei servizi segreti a
Misurata, circa il 70% degli uomini del “califfato” a Sirte non sono
cittadini libici, ma tunisini, sudanesi, egiziani, nigeriani e ciadiani.
Che, aggiunge Jamal Zubia, portavoce del governo di Tripoli, non sono
mossi dall’ideologia «ma dai mille dollari offerti, un sacco di soldi
per molti africani».
Così l’Isis avanza e il governo di unità
nazionale resta bloccato. Lo sanno bene i 23 paesi riuniti ieri a Roma,
ospiti della Farnesina, per il terzo vertice anti Isis. Il padrone di
casa, il ministro degli Esteri Gentiloni, sbandierando avanzamenti nella
lotta allo Stato Islamico («Nel 2015 il 40% del territorio controllato
da Daesh in Iraq è stato liberato, il 20% in Siria»), ha puntato dritto
alla Libia: «L’attività di Daesh rischia di moltiplicarsi. Ci aspettiamo
che il consiglio presidenziale formuli una nuova proposta di governo,
che sarà presentata lunedì o martedì prossimi. Un punto di svolta per
una comunità internazionale che vuole rispondere alle richieste del
governo di unità libico in termini di sicurezza. Noi siamo pronti a
rispondere».
Come? Probabilmente con un intervento militare. Non è
un segreto che Londra e Parigi stiano scaldando i motori della guerra e
Roma, che ha tentato la via negoziale, è pronta a cedere in cambio
della guida di una campagna sotto l’egida Onu. Con la cacciata di
Gheddafi, l’Italia ha perso un ricco partner economico e ora rivuole la
sua parte.
A preparare il terreno è il segretario di Stato Usa
Kerry che ieri ha avvertito i partner della crescente minaccia
rappresentata dall’Isis in Libia: «L’ultima cosa che voglio è un falso
califfato con a disposizione miliardi di dollari in riserve
petrolifere». Secondo la comunità internazionale, unica barriera
all’avanzata islamista è la formazione del governo di unità nazionale,
promesso da oltre un mese ma ancora in stand by. Ma al di là dei
boicottaggi interni (il 25 gennaio il parlamento di Tobruk ha rifiutato
la proposta di esecutivo del premier designato al-Sarraj e chiesto la
riformulazione entro 10 giorni), le difficoltà politiche sono dettate
dalla frammentazione della Libia in poteri rivali, tribù, milizie e
gruppi islamisti.
Per questo un intervento armato appare
un’opzione controproducente, che potrebbe moltiplicare le resistenze e
raddoppiare l’efficacia della propaganda islamista, soprattutto perché
sarebbe diretto alla “messa in sicurezza” dei giacimenti petroliferi.
Guerra per il greggio camuffata da guerra allo Stato Islamico? Di certo
di stivali sul terreno ce ne sono già, francesi, britannici e
statunitensi. La macchina della guerra sembra già partita, seppure ieri
sia Parigi che Londra abbiano affermato di non voler inviare proprie
truppe in azioni di combattimento. Solo intelligence e supporto aereo al
futuro governo di unità.
Quello che invece non ingrana è il
dialogo siriano, a rischio collasso: l’annuncio di ieri dell’inviato Onu
de Mistura sull’apertura ufficiale del dialogo (dopo presunti
ammorbidimenti delle parti) è stato subito sgonfiato. Lunedì le
opposizioni dell’Hnc si erano dette soddisfatte dalle rassicurazioni
sulla fine di raid russi e assedi governativi, pur minacciando di
lasciare Ginevra nel caso di mancati progressi. E così ieri l’Hnc ha
cancellato il meeting del pomeriggio con de Mistura, definendole inutile
perché la Russia non ha interrotto i bombardamenti.
Lunedì
Damasco aveva dichiarato di voler discutere della consegna di aiuti
nelle città sotto assedio, mentre la Russia aveva fatto retromarcia sui
gruppi islamisti: Mosca ha definito «realistica» e quindi accettabile la
partecipazione di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam a causa delle
dinamiche sul terreno, pur considerandoli terroristi. Da parte sua Jaysh
al-Islam, dalla Svizzera, ha accusato il governo di «non essere
interessato a raggiungere una soluzione». Un passo avanti e due
indietro.
Infine, gli Stati uniti: da Roma Kerry ha chiesto alla
coalizione anti-Isis maggiori sforzi economici: serve denaro – ha detto
il segretario di Stato – per ricostruire le città irachene liberate e
per affrontare la crisi umanitaria in Siria. Senza mancare di attaccare
il presidente siriano Assad («È una calamita per il terrorismo, usa la
fame come tattica di guerra»), Kerry in conferenza stampa ha ammesso che
«la crisi siriana peggiora di giorno in giorno, per cui vedremo se chi
dice di combaterlo sul terreno sarà in grado di raggiungere il cessate
il fuoco».
Una stoccata alle opposizioni sostenute ciecamente per
anni ma ora fonte di screzi per le posizioni irremovibili e, per
Washington, controproducenti: mentre i gruppi anti-Assad discutono, la
Russia guida un’efficace campagna aerea a sostegno del governo. Che
avanza: ieri le truppe di Damasco hanno lanciato una nuova
controffensiva su Aleppo, riprendendo una serie di villaggi a nord della
città.
Chi non ammorbidisce le proprie posizioni è la Turchia che
ieri ha criticato l’alleato Usa per la visita tributata al Pyd kurdo a
Kobane: «Non si può dire che il Pkk è organizzazione terroristica e il
Pyd no», ha detto il presidente Erdogan.