il manifesto 2.2.16
La bufala del reddito minimo e la realtà dei poveri in Italia
Welfare.
Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato
il «Jobs Act delle partite Iva» per uno «statuto del lavoro autonomo»,
ora è impegnato in un’altra campagna. Il Cdm avrebbe approvato
addirittura il «reddito minimo». In realtà si tratta di un sussidio per
un milione di poveri assoluti (su 4)
di Roberto Ciccarelli
ROMA
Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato
il «Jobs Act delle partite Iva», destinato a 220 mila persone, per uno
«statuto per i lavoratori autonomi» che in Italia sono 5,4 milioni, ora è
impegnato in un’altra campagna. Il consiglio dei ministri di giovedì
scorso avrebbe approvato addirittura il «reddito minimo». Così è stata
intitolata ieri un’intervista, su un noto quotidiano, al ministro del
lavoro Giuliano Poletti. In realtà, nel corpo piccolo delle risposte,
Poletti è stato molto più realistico: il sussidio da 320 euro per 280
mila famiglie poverissime e numerose sotto i 3 mila euro di Isee e con
figli minori (80 euro a testa, cifra simbolica della politica dei bonus
renziani) non è un reddito minimo, ma il più modesto «sostegno di
inclusione attiva» (Sia).
Questa misura, inventata dal governo
Letta, è una misura assistenziale e per nulla universalistica di
sostegno al reddito. La legge delega che permette il governo di
estendere il «Sia», erogato mediante una «social card» di berlusconiana
memoria, a condizione di vincolarlo a un nuovo obbligo, fin’ora assente
in Italia: quello di «mandare i figli a scuola o accettare
un’occupazione». Finalità, ispirate a un’idea autoritaria del
«welfare-to-work», che potrebbero essere raggiunte in tutt’altra
maniera, e certo non vincolate a meccanismi che rischiano di introdurre
un controllo esterno delle famiglie. Tra l’altro, il provvedimento
inserisce i privati nel contrasto alla dispersione scolastica. Ci
sarebbe un fondo da 150 milioni stanziato da fondazioni bancarie.
La
consueta ambivalenza, sia giuridica che linguistica, prodotta dal
«buzz» mediatico ha lo scopo di confondere il «Sia» con il reddito
minimo. L’articolo 34 della Carta di Nizza lo ha fissato al 60% del
reddito mediano procapite. La cifra è più del doppio: si va dai 630 ai
780 euro. Importi non a caso stabiliti da due disegni di legge sul
reddito minimo, ormai dimenticati: quello di Sel (frutto di una campagna
dei movimenti di base pro-reddito) e quello del Movimento 5 Stelle,
impropriamente definito «reddito di cittadinanza».
Per il governo i
beneficiari del «Sia» sarebbero un milione di persone (di cui 550 mila
minori). Un’altra dimostrazione della parzialità della misura. Per
l’Istat, nel 2014 un milione 470 mila famiglie risultavano in condizione
di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni e 102 mila. Si parla di
un reddito inferiore a 816 euro mensili in una metropoli del Nord e 548
in un comune del Sud. Su queste situazioni Poletti continua a ragionare
con la «politica dei due tempi»: per ora si parte con 1 milione, in
seguito si raggiungeranno gli altri tre. Anche nel «sociale» questo
approccio è risultato fatale. Di anno in anno le priorità dei governi
cambiano, mentre si procede con misure parziali, regolarmente
sottofinanziate. In mancanza di un vero reddito minimo, gli altri 9
milioni di poveri «relativi» resteranno esclusi.
Un altro elemento
dello «story-telling» governativo è legato ai fondi. Presentando la
misura «welfare-to-work», si omette di citare i tagli dell’80 per cento
al fondo delle politiche sociali avvenuto negli ultimi sette anni di
crisi. L’esecutivo parla di 600 milioni per il 2016, 220 per l’Asdi:
sussidio che si prende dopo avere percepito la Naspi. I fondi saliranno a
un miliardo nel 2017. Si tratta di finanziamenti irrisori anche
rispetto al ristretto campione selezionato.
Il criterio adottato
dal «piano contro la povertà» è ispirato alla categorialità. Come ha più
volte sostenuto la sociologa Chiara Saraceno, i sussidi al reddito per
le famiglie bisognose sono usate per segmentare il corpo sociale in
categorie e sotto-categorie (per età, status lavorativo o pensionistico,
ad esempio).Il risultato è mantenere le persone nella «trappola della
povertà». Questo è accompagnato dalla sistematica contrazione dei
criteri di accesso ai sussidi. Insomma, tutto è lasciato al caso e
all’arbitrio: se si appartiene a una categoria «fortunata» si percepisce
il fondo. Altrimenti si resta soli. Così si riproduce l’esclusione
sociale.
La deliberata volontà del governo Renzi di sottrarsi a
una sistemazione generale del reddito minimo sta producendo altre
conseguenze. Il «piano contro le povertà» non affronta l’enorme e
confusissima legislazione prodotta negli ultimi due anni dalle regioni.
Anzi, aggrava la situazione. Ci troviamo, ormai, in una situazione in
cui la Valle d’Aosta ha un reddito strutturale che può essere erogato
per cinque mesi anche alle partite Iva. In Puglia, invece, c’è un
sussidio da 600 euro per i poveri, ma i requisiti escludono chi lavora e
i precari. Tutto è occasionale e improvvisato in Italia. Tranne la
povertà.