il manifesto 2.2.16
Quell’idea di autogoverno persa in mezzo al guado
Saggi.
«Democrazia» di Massimo L. Salvadori per Donzelli Editore. La
trasformazione della rappresentanza politica in oligarchia e la messa ai
margini della sovranità popolare
di Carlo Altini
La
democrazia è un mito o è una realtà? Se finora è stata solo un mito,
possono comunque darsi le condizioni per una sua realizzazione? E se
invece è anche una realtà, quale rapporto esiste tra l’idea regolativa
della sovranità popolare come forma di autogoverno e la sua
realizzazione concreta? A queste e altre domande sulla storia e sulla
teoria della democrazia cerca di rispondere il volume Democrazia. Storia
di un’idea tra mito e realtà di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pp.
507, euro 35). Oggi è difficile individuare un concetto che goda di
maggiore fortuna rispetto a quello di democrazia, diventato un
ingrediente irrinunciabile per l’autodefinizione di qualsiasi movimento,
tanto che nessun attore sulla scena politica può definirsi
antidemocratico, pena la sua immediata cancellazione o emarginazione dal
dibattito pubblico: «democrazia» non indica più solo una forma di
governo o un insieme di regole procedurali e istituzionali, ma l’intero
orizzonte assiomatico dei paesi occidentali. Questa fortuna dell’idea di
democrazia non è però priva di ambiguità, tanto da condurre a un suo
uso ideologico e strumentale, attraverso cui essa viene trasformata in
un passepartout utile a giustificare qualsiasi opzione politica.
Lo scoglio della complessità
Proprio
per fare chiarezza sulle ambiguità del principio democratico il volume
di Salvadori fornisce strumenti di comprensione concettuale e presenta
una prospettiva critica – sia storica che teorica – sull’idea di
democrazia. Sul piano storico il volume ricostruisce il lungo viaggio
della democrazia dalla Grecia classica a oggi, passando per le teorie
liberali e le filosofie illuministiche (Spinoza, Locke, Montesquieu,
Rousseau), le rivoluzioni americana e francese, il marxismo, il pensiero
repubblicano (Mazzini), le lotte per il suffragio universale, la
competizione tra i partiti per giungere al governo (Kautsky, Weber,
Kelsen, Schumpeter) e l’affermazione dello Stato sociale. Il volume
costituisce pertanto un compendio enciclopedico delle varie posizioni
che sulla democrazia si sono venute consolidando in Occidente. Ma
l’aspirazione dell’autore non è puramente erudita o antiquaria.
Sul
piano teorico Salvadori analizza infatti numerose questioni connesse
all’idea di democrazia (volontà popolare, costituzione, rappresentanza,
diritti, partiti), alla luce di una piena consapevolezza delle patologie
delle democrazie contemporanee. Guardare alla sostanza dell’attuale
democrazia liberale rappresentativa significa rendersi amaramente conto
che essa è altra cosa rispetto al potere sovrano del popolo. Per certi
aspetti, significa rendersi conto che la democrazia non ha trovato
applicazione perché non può trovarla: «Nessuno meglio di Kelsen ha
chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata
soltanto quella diretta degli antichi, ma quest’ultima è incompatibile e
inapplicabile nelle società complesse. L’unica forma realizzabile di
democrazia è la rappresentativa, ma tale forma comporta di necessità il
trasferimento della sovranità dal popolo ai suoi rappresentanti,
titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una
sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia
stessa». Il sistema rappresentativo moderno lascia dunque al popolo una
quota di potere che nulla a che fare con l’ideale della piena sovranità
popolare.
Naturalmente Salvadori non nega l’importanza dei
movimenti di emancipazione che, soprattutto nel XIX e XX secolo, hanno
realizzato migliori condizioni di vita per le classi popolari. Al
contrario, l’autore sottolinea come la giustificazione (e la
sopravvivenza) dell’idea di democrazia sia interamente dovuta al
successo di queste lotte per i diritti civili e per le riforme sociali.
Ma tutto ciò non deve impedire di vedere che il principio della
sovranità popolare non ha mai avuto un pieno riscontro effettivo
nell’esercizio del potere. Esso è stato affermato solo astrattamente e
utilizzato come ideologia di legittimazione del potere, perché al popolo
è stata lasciata l’illusione della sovranità (per esempio, grazie
all’esercizio del voto nelle competizioni elettorali): la natura dei
sistemi democratici è dunque riducibile alla combinazione delle
istituzioni liberali con il suffragio universale. La democrazia moderna
si colloca così a metà strada tra il mito e la realtà: se intesa come
aspirazione all’autogoverno, essa è un mito; se intesa come strumento
per l’emancipazione civile e sociale delle classi popolari, essa ha
raggiunto alcuni importanti obiettivi (sistema pensionistico,
scolastico, sanitario ecc.) probabilmente impensabili in altre forme di
governo.
Morbidi dispotismi
Oggi però, sotto la spinta delle
teorie neoliberali, anche questa interpretazione realistica della
democrazia moderna sembra diventare utopistica, a causa
dell’arretramento delle politiche sociali che comprime l’unico spazio di
sovranità popolare davvero realizzato tra Ottocento e Novecento, quello
del welfare state. Stiamo così assistendo a un progressivo scivolamento
in forme di plutocrazia demagogica che, imponendo il dominio del
«mercato», hanno ricreato rigide diseguaglianze sociali di «ceto»
attraverso l’uso ideologico del lessico delle libertà, ma di fatto
svuotando l’idea stessa di democrazia, ridotta a esistere solo nelle
cabine elettorali. Questa deriva reazionaria della democrazia è oggi
evidente proprio negli esiti patologici del consenso
populistico-plebiscitario che innerva il dispotismo «morbido» tipico
delle post-democrazie contemporanee, esito del declino della
rappresentanza e della supremazia di oligarchie cosmopolitiche che si
formano in modo non trasparente all’incrocio tra politica, economia e
comunicazione.
L’attuale crisi della democrazia riposa infatti su
una crisi sociale e culturale che ha visto in Occidente la frantumazione
delle identità collettive e l’affermazione di forme di passività che
hanno tolto significato a parole quali partecipazione e autogoverno.
Frenare questa deriva paternalistica della democrazia, segnalata già da
Tocqueville, non è certo facile, secondo Salvadori, ma richiede almeno
una consapevolezza: «Guardando allo stato delle cose non resta se non
concludere che il demos ha perso la partita nei confronti delle
oligarchie \[…\]. Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un
avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò
dipenderà dalla capacità o meno del demos oggi umiliato e offeso di
dotarsi del necessario vigore e dalla sua capacità di iniziativa per
incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma
sostanziali del potere». Il destino della democrazia, come sempre, è
nelle nostre mani.