il manifesto 25.2.16
Il club privè per peccatori
Preti pedofili in tranquillo esilio nel sud del Cile affrontano la sferza narrativa senza pietà di Pablo Larrain
di Silvana Silvestri
Gran
premio della giuria a Berlino lo scorso anno, El Club esce nelle sale a
raccontare il drammatico caso dei preti pedofili in contemporanea con
Spotlight dove una serrata inchiesta giornalistica del Boston Globe
scova i colpevoli nascosti, mostrandoli come personaggi per lo più
disturbati e un po’ spaesati nelle cose di questo mondo, mandati a
prendere aria nuova a Santa Maria Maggiore a Roma. Pablo Larrain
rinchiude i suoi preti in un «Club», una casa isolata sulla riva
dell’oceano Pacifico, nel sud del Cile. Due film tra i più belli di
quest’anno: tanto quello di Tom McCarthy sprizza energia nel suo
obiettivo di incastrare lo scandalo che si vuole tenere nascosto, quanto
Larrain entra nei più profondi e nascosti territori dell’animo umano
così come piuttosto inaccessibile è il luogo dove ambienta il suo film
su pentimento, ruolo di vittime e carnefici, espiazione, omertà.
Il
regista si è confrontato nei suoi film con tutte le tematiche
considerate tabù nel suo paese, perfino i risultati dell’autopsia di
Salvador Allende (in Post mortem del 2010) e con Alfredo Castro,
grandissimo interprete, ha dato un volto alle più tenebrose ossessioni e
cattiva coscienza, violenza repressa ed esibita. Alfredo Castro qui
incarna l’incoffessabile. Nella sua interpretazione si espande
all’infinito questa condizione, tocca sfere limitrofe, dolorose non solo
per un pubblico cileno che di impunità ha larga consuetudine, ma ne fa
un tema universale, una profonda riflessione su pedofilia e silenzio
della chiesa.
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Larrain prende spunto
ancora una volta da un fatto di cronaca del suo paese emerso con clamore
sulla stampa e la televisione dopo le accuse al vescovo Karadima,
sospeso dal servizio e poi moltiplica la tematica alle figure più
diverse, ai differenti strati sociali, ai gradi diversi delle gerarchie
ecclesiastiche (in filigrana non si può fare a meno di sentire la
presenza di papa Francesco nel difficile confronto con la curia). Nel
film i protagonisti sono preti di piccolo cabotaggio, vivono a La Boca,
villaggio sull’oceano senza poter più esercitare le funzioni religiose,
in una casa adibita alla loro accoglienza, accuditi da una suora che
funge da «carceriera» (Antonia Zegers sarà interprete del prossimo film
di Larrain, Neruda, con Gael Garcia Bernal).
Si tratta di un
piccolo club ben organizzato, regolato in modo preciso come fosse un
nuovo ordine monacale (divieto di parlare con gli estranei, orari
regolati dalle preghiere), ma l’indizio che i preti sotto accusa sono
arrivati al punto più basso di una scala discendente è dato già dalle
prime scene dal fatto che la loro principale attività consiste nello
scommettere alle corse dei cani, in possesso come sono di un autentico
campione. Il perfetto funzionamento del «club» verrà messo pesantemente
in discussione da personaggi che appaiono improvvisamente sulla scena,
un altro prete da accogliere, un povero campesino abusato fin da
piccolo, un padre inviato dal Vaticano con intenti inquisitori.
Un
microcosmo che allude alla società intera e si allarga sempre di più
portando i protagonisti, consapevoli o no, a rendere conto dei propri
delitti. «La Chiesa, ci diceva Larrain, crede che i propri peccati
vadano confessati a Dio, noi pensiamo che vadano portati in tribunale,
mi aspetto una confessione pubblica». E in questa affermazione si
uniscono nell’immaginario anche i delitti perpretrati da torturatori ed
ex militari nel paese, che non basta cancellare con la pacificazione, il
colpo di spugna o l’amnistia.
È universale l’intento del film, ma
il microcosmo dei preti rinchiusi nella casa mette in evidenza alcune
caratteristiche di prototipi di uomini cileni (e a interpretarli sono
grandissimi attori): il militare che ha sempre qualche arma a portata di
mano, il machista decisionista, il viejo loco (il vecchio fuori di
testa) che neanche più ricorda chi era stato e cosa aveva fatto.
Perfino
la suora evoca alcune caratteristiche della donna cilena sempre
sorridente ma dall’inaspettata ferocia. Qui con determinazione è capace
di uccidere per ottenere il suo scopo.Alfredo Castro, padre Vidal, è
l’unico che parla di desiderio: («puoi reprimere ogni cosa ma non il
desiderio»), lui stesso si definisce ’il re della repressione’. Il
personaggio di Sandokan (Roberto Farias), il povero cristo che proclama a
voce alta gli abusi subiti da bambino in tutti i particolari, quasi
voce che grida nel deserto, innalza le sue preghiere con lo stesso
fervore, mentre le orazioni dei sacerdoti procedono solo a scandire il
tempo (una regola tra le altre).
Quella voce chiama in causa
qualcuno che abita tra quelle mura, non basta l’isolamento a tenere
lontani i peccati, ma neanche l’inquisitore mandato a chiudere quel
rifugio potrà far chiarezza. Si torna all’incipit del film, dove le
parole della Genesi sulla separazione della luce dalle tenebre indicano
la possibilità per l’uomo di distinguere il bene dal male. Nel Club non
c’è redenzione, un male uniforme invade tutta la superficie del film,
sono tenebre che non si riescono a dissolvere. Larrain è un esigente
agitatore di coscienze, un maestro della resa dei conti, un grande
narratore del male.