Corriere 25.2.16
Il fascismo e la nemesi storica Quando Sironi sbagliò l’affresco
di Roberta Scorranese
Uno degli appuntamenti collaterali di Mercanteinfiera è la mostra Mario Sironi. Pittura, illustrazione, grande decorazione , promossa da Edizioni Cinquantasei-Bologna in collaborazione con Art Fair. Novanta opere che richiamano l’attenzione (con una ricca scelta di cartoni preparatori) su uno dei temi più importanti e controversi dell’artista scomparso nel 1961: la pittura murale. Quella «grande decorazione» per la quale, all’alba degli anni Trenta, decise di abbandonare il cavalletto, che ormai vedeva come un alfabeto desueto. Che cosa era successo?
Siamo al culmine del consenso fascista, con il regime che è un sempre più abile manovratore dell’arte come strumento politico. Specie nell’architettura: per esempio, nel 1932 Marcello Piacentini realizza il primo grattacielo d’Italia, la Torre della Vittoria a Brescia. Si vuole colpire l’immaginario della massa: per farlo, occorrono opere grandi, riconoscibili, popolari, educative. Un’arte che esca dai salotti e che parli alla società. Sironi coglie questo aspetto sottilmente rivoluzionario e, già protagonista del movimento «Novecento» di Margherita Sarfatti, si fa portavoce di un’arte totale , che unisca pittura, architettura, urbanistica.
Tra gli anni Venti e Quaranta Sironi realizzò molte opere murali, come la vetrata La Carta del Lavoro (Ministero dell’Industria) o i murali per la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932, al Palazzo delle Esposizioni. Ma il progetto del 1933 sarebbe stata un’altra cosa. La V° edizione della Triennale Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne, la prima ospitata a Milano, nel nuovissimo Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio, sarebbe stata la sua occasione.
Avrebbe dovuto essere il suggello di questa sua idea di «arte pubblica», al servizio non delle gerarchie fasciste ma delle persone. Sironi si mette a capo di un team d’eccezione, che comprende artisti come Giorgio De Chirico (tornato apposta da Parigi), Massimo Campigli, Achille Funi, Corrado Cagli. Cura l’intera organizzazione che coordina i grandi decori plastici e murali. Firma persino il Manifesto della Pittura murale , con Campigli, Carrà e Funi nello stesso anno. Ma è qui che una sorta di nemesi storico-culturale fa la sua comparsa: quegli affreschi si rivelarono effimeri, durarono pochissimo, a causa di un’imperfetta tecnica pittorica. Come era successo a Leonardo da Vinci quando, chiamato ad affrescare il Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio di Firenze, recuperò dai testi di Plinio il Vecchio le istruzioni per applicare l’antica tecnica romana dell’encausto (colore fissato a caldo sulla parete). Non funzionò: l’ambizione e la cattiva sorte rovinarono la sua Battaglia di Anghiari , da allora uno dei grandi misteri della storia dell’arte.
«Certo, l’errore non fu solo di Sironi — commenta Andrea Sironi-Straußwald, erede dell’artista e a capo della Fondazione a lui dedicata — ma anche gli altri affreschi realizzati per l’occasione cominciarono a deteriorarsi subito dopo». Solo Gino Severini, che era un maniaco della tecnica pittorica da parete, scelse di fare un mosaico («Le Arti») e perciò l’opera sopravvisse. Troppi i limiti, a cominciare dallo scarso tempo a disposizione degli artisti: la tecnica del buon fresco venne rimpiazzata da procedimenti più veloci, quali, ad esempio, la pittura al silicato e surrogati composti con nuovi materiali come il «silexore».
Poi, paradosso estremo, la critica fascista attaccò le grandi figure di Sironi, definendole «troppo moderne». Il suo intento innovatore, quell’idea di arte pubblica («Noi crediamo fermamente che l’artista deve ritornare a essere uomo tra gli uomini» si legge nel Manifesto) era stato polverizzato da una propaganda becera e populista. Era solo l’inizio di un lungo tramonto italiano.