il manifesto 19.2.16
Casson: «È Renzi a dover pretendere rispetto da al-Sisi»
L'intervista. Felice Casson, segretario del Copasir: «L’Egitto non collabora e sta violando la nostra dignità e sovranità»
di Eleonora Martini
Il
senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del
Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si
trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è
stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della
riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla
riservatezza», premette Casson.
Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono
state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia
arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è
collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono
andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate
nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i
negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini
registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi
cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova
che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora
non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è
caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i
cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane
non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di
azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in
queste situazioni.
A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna
calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno
Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di
qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di
Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti
italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a
tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine
feroci tra apparati e tra fazioni.
Il suo collega Giacomo Stucchi,
il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di
dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso
da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono
frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di
uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in
contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina
egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti
ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano
pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe
un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato —
che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro
— che fanno quello che vogliono.
E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A
livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli
esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un
territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro
azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di
vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve
pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di
diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato.
Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in
altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per
certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti
internazionali.
In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì
certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due
cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi
forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più
limitata.
Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo
almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e
segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale
della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della
nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi
segreti».
Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che
l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente
d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad
altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci
troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo
farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano
prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.
Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?
Penso
che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali
indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È
una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere
impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati.
Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono
agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità
statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della
propria sovranità che in questo caso è stata violata.
Quindi sta
nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier
dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente
mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola
i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione
molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno
snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che
si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle
primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale,
come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di
questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un
singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo
jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità
internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi
egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il
terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei
confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di
là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che
assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri
Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.
Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.
Infatti
bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura
nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da
tre o quatto legislature.