il manifesto 18.2.16
Eisenkot: «Non voglio vedere un soldato svuotare il caricatore su ragazzine»
Il capo di stato maggiore israeliano sembra dare credito alla tesi avanzata il mese scorso dalla ministra degli esteri svedese Wallstrom di "esecuzioni extragiudiziali" di palestinesi responsabili di attacchi da parte
Gerusalemme lo scorso 23 novembre. Hadil e Norhan Awwad dopo essere state colpite dalle guardie di sicurezza israeliane © Maan news agency
di Michele Giorgio
Il mese scorso il ministro israeliano Yuval Steinitz non esitò ad accusare di «antisemitismo» la collega svedese degli esteri Margot Wallstrom che aveva chiesto una indagine su sospette «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi, in riferimento all’uccisione sul posto, da parte di militari e polizia, dei responsabili di attacchi con coltelli, spesso solo tentati, a danno di israeliani. Wallstrom, che ha spesso criticato le politiche di Israele, è stata proclamata «persona non grata» e il premier Netanyahu ha difeso con energia la risposta data sino ad oggi dalle forze di sicurezza al «terrorismo palestinese» dopo l’inizio, lo scorso ottobre, dell’Intifada di Gerusalemme. A distanza di alcune settimane dallo scontro diplomatico tra Stoccolma e Tel Aviv, è lo stesso capo di stato maggiore israeliano, il generale Gadi Eisenkot, a dare credito ai sospetti della ministra svedese e alle critiche rivolte a Israele da diversi centri per i diritti umani. Parlando ieri a Bat Yam a un gruppo di future reclute, Eisenkot ha detto di essere contrario all’uccisione sommaria, sul posto, di palestinesi responsabili di attacchi. Le attuali regole d’ingaggio, ha detto, sono «soddifacenti e corrette». Le truppe, ha aggiunto, «possono agire solo se c’è pericolo di vita». A un ragazzo che gli chiedeva la sua opinione sulla risposta appropriata da dare agli attacchi a danno di israeliani, il capo di stato maggiore ha risposto che «L’Esercito non può agire per slogan del tipo ‘se qualcuno vuole ucciderti, uccidi tu per primo’ o ‘chiunque porti delle forbici dovrebbe essere ucciso’…Non voglio vedere un soldato svuotare il suo caricatore su ragazzine con le forbici».
Eisenkot si è riferito all’uccisione al mercato di Mahane Yehuda (Gerusalemme), lo scorso 23 novembre, di una 16enne palestinese, Hadil Awwad, e al ferimento di sua cugina 14enne, Norhan Awwad. Le due ragazzine, del campo profughi di Qalandiya, dopo aver ferito con delle forbici un anziano palestinese (evidentemente scambiato per israeliano) furono affrontate dalle guardie di sicurezza schierate nella zona che spararono a distanza ravvicinata e ad altezza d’uomo uccidendo una delle due palestinesi. Nelle immagini dell’accaduto riprese da una telecamera di sorveglianza, si vede una delle guardie che si avvicina ad Hadil Awwad, a terra, forse già morta, e spara numerosi colpi per finirla. Il filmato fece il giro delle rete suscitando sdegno e interrogativi. Invece per le autorità e gran parte dell’opinione pubblica di Israele il comportamento delle guardie sarebbe stato ineccepibile e adeguato alla minaccia rappresentata dalle due adolescenti palestinesi. Circa un mese prima dell’accaduto a Mahane Yehuda, Amnesty International aveva condannato le «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi responsabili di attacchi con coltelli. Dallo scorso ottobre una trentina di israeliani e circa 170 palestinesi sono stati uccisi, molti dei quali adolescenti.
il manifesto 18.2.16
Democratici a pezzi sul ddl Cirinnà, governare val bene una messa
Diritti. Democratici a pezzi sul ddl Cirinnà. Zanda annuncia la resa. Tutto rinviato di una settimana. Ma Alfano alza la posta e chiede un accordo di maggioranza, oltre alla «stepchild» mira a far saltare tutti i diritti «paramatrimoniali». La senatrice dem teme il peggio: «Ho sbagliato a fidarmi dei grillini, non firmerò una legge porcata»
di Andrea Colombo
ROMA Sono appena le 9.30 del mattino quando il capogruppo Pd Zanda, in apertura di seduta, prende la parola per chiedere tempo: «Serve un lavoro di riflessione per riannodare fili politici». E’ presto, ma nelle stanze del Senato lo stato maggiore del gruppo dem è già al lavoro da ore alla ricerca di una via d’uscita. La sconsolata richiesta di rinvio rivela che non è stata trovata.
Dopo il ko del voltafaccia a cinque stelle di martedì sera la notte non ha reso le cose più facili. Le ha complicate. Ora Alfano sente di avere la vittoria in pugno e non si accontenta più della stepchild. Quando, prima che si alzi il sipario sui lavori dell’aula, Maria Elena Boschi sonda il ministro degli Interni per capire se i centristi accetterebbero una pace basata sulla messa ai voti per parti separate dell’emendamento Marcucci, cioè sul lasciare all’aula la decisione sulla stepchild, il leader Ncd risponde che l’asticella si è alzata. Lo stralcio delle adozioni, o la disponibilità a farle abbattere in aula, non basta.
Prima in capigruppo, a maggioranza, poi col voto dell’assemblea, il Pd ottiene il suo rinvio sino a mercoledì prossimo, non senza passare sotto le forche caudine di interventi durissimi da parte di chi, al momento, è vincitore. Il capogruppo leghista Centinaio rinfaccia al collega del Pd l’arroganza con cui aveva minacciato di fare «piazza pulita» con il canguro. Calderoli smentisce di aver organizzato una resistenza alla legge ostruzionistica e lo dimostra.
In effetti non è l’ostruzionismo il problema. E’ una fronda interna al Pd che non accenna a piegarsi e che non è composta dalla minoranza ma da renziani della prima ora, molto meno facili da domare. Ed è un M5S che, interessato a colpire Renzi molto più che a difendere o attaccare la legge, ha giocato bene le proprie carte, lasciando credere a Cirinnà e a Lumia, i due senatori dem in cabina di regia, di essere pronto a votare l’emendamento Marcucci. Salvo poi sfilarsi all’ultimo momento.
Renzi e Boschi avevano subodorato il tranello. Nei giorni scorsi avevano chiesto più volte a Cirinnà e a Lumia se davvero ci si poteva fidare dei pentastellati, ricevendo puntuali quanto infondate rassicurazioni. E’ questo il colpo che la senatrice prima firmataria della legge accusa di più e che la spinge ad ammettere: «Mi sono fidata e pagherò l’errore. Se la legge sarà stravolta lascerò la politica». Qualche ora dopo ci ripensa: «Non lascio, ma neppure metterò il mio nome su una legge porcata».
La tenaglia composta dai centristi della maggioranza e dai ribelli del Pd è già pronta. A metà pomeriggio Alfano detta il suo diktat: «Time out sulle unioni civili. Speriamo che adesso il Pd capisca che occorre ripartire dalla maggioranza di governo». I catto-dem concordano: l’obiettivo adesso è portare a casa tutto ciò che rischia di assimilare le unioni civili al matrimonio. La sinistra del Pd fa muro. Ventuno senatori firmano una lettera rifiutando «mediazioni al ribasso». Marcucci, papà del canguro, giura che «non la daremo vinta a Casaleggio».
Renzi, però, in costante contatto con la sua truppa sin dalla notte, non si sbilancia: «Bisogna cambiare strategia. E’ chiaro che la legge va approvata ma che da soli non possiamo farlo». Che fare, al momento, non lo sa neppure lui. L’unico ordine certo che arriva dal premier all’ufficio di presidenza dei suoi senatori è «niente stralcio». Dato che per Alfano e i catto-dem è ormai insufficiente, per il momento parlarne sarebbe una perdita di tempo. La seconda certezza è che il voto segreto sulla stepchild dovrà esserci, e senza alcuna rete di protezione.
Già, ma cosa fare allora? Al momento la via più gettonata è quella di mettere ai voti l’emendamento Marcucci per parti separate. La sorte della stepchild sarebbe a quel punto nelle mani dell’M5S e probabilmente le adozioni verrebbero battute. La partita però non finirebbe lì perché, anche se parecchi emendamenti inclusi molti «premissivi» decadrebbero, la battaglia s’infiammerebbe di nuovo al momento di votare i passaggi contenuti nell’articolo 3 del ddl, quelli sui diritti «paramatrimoniali» delle unioni civili, che sono adesso il nuovo elemento sotto assedio.
In alternativa si potrebbe accettare il voto sull’articolato, ma in quel caso campeggerebbe la minaccia dei micidiali «premissivi» dell’opposizione e in più, con un certo numero di voti segreti inevitabile, il rischio di varare non una legge di civiltà ma un pasticcio inguardabile e contraddittorio sarebbe altissimo.
Infine il capo del governo potrebbe adoperarsi per spingere il presidente del Senato a eliminare almeno una parte dei rischi. Se Grasso dichiarasse inammissibili tutti gli emendamenti premissivi, sia il Marcucci che quelli delle opposizioni, per il ddl tutto diventerebbe più facile. Solo che a quel punto non si potrebbe più far ricorso a canguri o bestioni simili neppure in futuro, e Renzi non vuole privarsi di quell’arma.
Il premier e segretario del Pd ha una settimana per riparare a una gestione disastrosa del ddl più delicato di questa legislatura e trovare una via d’uscita dal labirinto in cui sono finite le unioni civili.
Ma tra una Boschi che si dichiara «sempre ottimista» e la capogruppo del Misto De Petris che, dopo aver impedito con la proposta del rinvio la disfatta martedì, confessa ora apertamente di essere «estremamente preoccupata» è la seconda che si avvicina di più alla verità.
il manifesto 18.2.16
Raitre, invasioni barbariche
Tv. Il dg Campo Dall’Orto sceglie in nuovi direttori delle reti. A sorpresa arriva Daria Bignardi. Dallatana a Raidue, Romagnoli allo sport. All’ammiraglia l’unico nome interno, Andrea Fabiano. Protesta l’Usigrai: delegittimati tutti i dipendenti
di Micaela Bongi
La sorpresa che si annunciava l’altroieri a viale Mazzini in effetti è arrivata, e a non prenderla bene non è solo l’Usigrai — il sindacato dei giornalisti della tv pubblica — che protesta per l’arrivo di tre esterni alla guida di due reti (Raidue e Raitre) e di Raisport. Il nome che più colpisce — anche perché è il più noto — e indispettisce, tra quelli scelti dal direttore generale Antonio Campo Dall’Orto e rimasti top secret fino all’ultimo, è Daria Bignardi, che andrà a Raitre. E chissà se incontrando casualmente Andrea Salerno, autore di molti programmi della terza rete (l’ultimo, Gazebo), dato in pole position per la direzione ma sorpassato al fotofinish, la conduttrice delle Invasioni barbariche non l’abbia salutato con uno «stai sereno». Fu nel suo salotto, infatti, che Matteo Renzi lanciò contro Enrico Letta l’hashtag letale. Del non ancora premier ma nuovo segretario del Pd, la conduttrice invece disse: «Renzi? L’abbiamo lanciato noi televisivamente».
Facile malignare che il presidente del consiglio abbia voluto ricambiare, senza dover tirare in ballo il marito di Daria Bignardi, Luca Sofri (beccato mentre diceva a Renzi un «Ciao capo, bella intervista», dietro le quinte di La 7), che negli ultimi tempi è andato cercando lo «spirito» perduto della Leopolda e che forse potrà ritrovarlo nella Rai guidata dal leopoldissimo Campo Dall’Orto (fu proprio l’attuale dg Rai a portare Bignardi a La 7, nel 2004). Va detto che televisivamente Renzi finora non aveva portato benissimo alla quasi neo direttrice che debuttò in tv nel 1993 con Milano, Italia. L’ultima stagione delle Invasioni barbariche si aprì, lo scorso anno, con un’intervista (l’ennesima) al premier, e fu la peggiore performance di Renzi, foriera di cattivi presagi: un paio di mesi dopo il programma chiuse in anticipo a causa del calo di ascolti. Ma al di là del tasso di «renzismo» della conduttrice (tra l’altro del primo Grande fratello) e scrittrice, nei corridoi della Rai ci si chiede: ha le competenze che servono per guidare una macchina complessa come una rete tv? E ancora: si vuole dare un colpo all’identità della rete dei «gufi?».
Lo spirito della Leopolda potrebbe aleggiare anche intorno a Ilaria Dallatana, scelta da da Cdo come direttrice di Raidue. E’ infatti la ex socia di Giorgio Gori: insieme hanno fondato Magnolia, la società di produzione specializzata nei format televisivi. E prima di allora ha a lungo lavorato a Mediaset, e qui si potrebbe sentire anche aria di Nazareno. Ma chi la conosce dice che non ama occuparsi del Palazzo, la sua passione è la tv. Ha creato tra l’altro Pechino Express, adventure game che ha fatto la fortuna proprio di Raidue, conosce il mercato internazionale e i nuovi generi serbatoio dell’ascolto giovanile, ed è insomma ritenuta particolarmente adatta per il profilo di una rete destinata alla raccolta pubblicitaria.
Se il nome di Dallatana era già circolato nei giorni scorsi, una sorpresa è anche l’arrivo alla guida dell’ammiraglia di Andrea Fabiano, attuale vicedirettore di Giancarlo Leone. Giovane nato nel 1976 (sarà il più giovane direttore della storia di Raiuno, ma è un inedito anche l’arrivo di donne alla guida delle reti), un master ad Harvard, si è occupato di marketing, è esperto di nuovi media e insomma serve a rinfrescare l’immagine della rete, ma rigorosamente nella continuità di una rete molto strutturata dove non ha molto da rischiare.
A Raisport arriva Gabriele Romagnoli, giornalista e scrittore, editorialista di Repubblica, già inviato negli Usa per La Stampa, dovrà gestire impegni importanti come Europei e Olimpiadi da neofita, digiuno di esperienza tv.
Il direttore uscente di Raidue Angelo Teodoli andrà a Raiquattro; Leone dovrebbe coordinare l’offerta delle reti. Antonio Marano andrà a Rai Pubblicità. Le nomine saranno portate oggi in cda, ma i consiglieri, con la nuova legge, potranno solo prenderne atto: per bocciarle dovrebbero opporsi 7 di loro su 9. Avranno voce in capitolo solo per Marano.
Il dg, reduce dalla stroncatura da parte dell’implacabile deputato del Pd Michele Anzaldi (ma lo stesso Renzi aspettava che i vertici Rai si dessero un mossa verso il “nuovo verso”) assicura che «tutte le scelte sono basate su esperienza e merito, autonomia dai partiti, nel segno della valorizzazione delle risorse interne». Ma l’Usigrai protesta: «L’ennesima infornata di esterni. Nei fatti una sonora sfiducia e delegittimazione di tutti i dipendenti della Rai».
Per quanto riguarda i consigliero, Arturo Diaconale vede «un’impronta renziana anche un po’ deludente», mentre per Carlo Freccero «prevale l’aspetto positivo», anche se «le interviste di Bignardi a Renzi sono un po’ troppo osannanti». E Federico Fornaro e Miguel Gotor, minoranza Pd, osservano: «Una più chiara presa di distanza da parte di Palazzo Chigi dalle esternazioni di Anzaldi allontanerebbe lo spettro di una stagione di normalizzazione».
il manifesto 18.2.16
Sinistra, una nuova casa. Online
Cosmopolitica. Nasce «Commo», primo social network italiano tra soggetto politico e movimenti. Uno spazio digitale in cui partito e dirigenti saranno «nodi» tra gli altri. Un modello tutto da verificare sul campo. Creato con i soldi del 2 per mille e gestito da volontari, sarà presentato sabato a Roma
di Daniela Preziosi
Non è il caso di farsi depistare dalla definizione molto understatement che ne dà la “call” («appello», «chiamata alla partecipazione», la leggerete su manifesto.info). Che recita: «Uno strumento a disposizione di attiviste ed attivisti, reti organizzate, esperienze civiche, movimenti sociali, persone, cittadini con l’obiettivo di mettere la rete al servizio di un progetto di cambiamento».
«Commo», così si chiama la piattaforma digitale che in una sua versione beta (base) sarà online fra poche ore, è già un oggetto del desiderio, cioè dell’immancabile dibattito a sinistra. Sabato mattina sarà il tema di un’intera sessione dell’assemblea Cosmopolitica, Palazzo dei Congressi di Roma, per affondo su «democrazia, rete, la sfida politica del digitale».
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Commo è un’innovazione assoluta nella sinistra italiana, al netto dell’esperienza pioniera ma quasi opposta del blog di Grillo. È ispirata ad altre esperienze simili in Europa. Ma è diversa.
È una piattaforma open source, a differenza di quella di Podemos, e a differenza di quella del partito Pirata tedesco sarà friendly, semplice da usare.
Non è solo un sito. Sarà un social network, ma non solo. Nelle reali, forse anche realistiche ambizioni di chi la sta costruendo, «Commo» sarà «uno strumento che accompagna il processo costituente» della sinistra italiana. Ma il suo progetto fa pensare a una sede, una vera casa. Online.
Una sede in cui il soggetto — il partito — occupa però una parte dell’open space digitale. Sarà tutto da vedere se sarà la parte più grande.
Partiamo dal nome. Commo, parola del greco antico indicante il dialogo fra il coro e gli attori, qui invece è un suono che «richiama l’immaginario dello spazio comune, un esperimento prezioso in tempi avari di partecipazione politica ma anche culturale e sociale», spiega Roberto Iovino, nella vita nell’ufficio legale della Cgil ma qui nella veste di uno dei responsabili del progetto insieme a Betta Piccolotti, consigliera comunale a Foligno e della segreteria di Sel.
Da mesi, da vari accessi in rete (le case di ciascuno, le stanze della sede di via Arenula, gli iPad sul treno fra un trasbordo e l’altro) la «piattaforma integrata» viene sviluppata in modo tale che da una parte «fornisca strumenti al soggetto politico e ne favorisca la crescita» (Piccolotti), dall’altra «movimenti, collettivi studenteschi, associazioni, comitati potranno usarla come strumento integrato per discussioni, votazioni, decisioni, crowdfunding» (Iovino). La lista «Torino in comune», per prima, la userà per scrivere il «programma partecipato» per le amministrative.
Ogni soggetto potrà utilizzare Commo senza che questo lo impegni con l’inquilino ’politico’.
Per accedere all’altra metà della schermata invece, ogni nuovo iscritto insieme alla sua tesserà riceverà username e password. Piccolotti: «La piattaforma sarà innanzitutto la possibilità di far tornare alla partecipazione politica tantissime persone che sono state espulse dalle riunioni infinite, dagli orari infrequentabili per esempio per chi ha figli. Qui si potranno svolgere le discussioni, anche le votazioni. Magari a voto palese, in modo che ciascuno nel suo profilo non conservi solo quello che ha scritto ma anche quello che ha votato. Con votazioni certificate e non taroccabili. A ciascuno arriverà un sms di verifica».
Qui, naturalmente, c’è un primo nodo delicato, lo dimostrano le perplessità, anche le resistenze che circondano «la creatura» già prima della nascita.
Sul rapporto fra rete e politica pesa la deriva autoritaria del blog di Grillo. Pesa la ponderosa letteratura sulla separazione fra reale e virtuale.
L’obiezione, a grandi linee, è: con Commo il nuovo soggetto tenderà alla virtualità, privilegerà la rete, si distaccherà dalla vita reale e agra, proprio oggi che anche chi ci ha già provato — Podemos in Spagna, Grillo in Italia, Piraten in Germania — ne misura già i limiti? «Il problema non si porrà. I circoli continueranno a discutere, solo avranno uno strumento in più. Ma è chiaro che il mix fra realtà territoriali e rete è una scelta politica e dunque formula tutta da decidere nel nuovo soggetto. Commo non sarà sostitutiva delle realtà militanti, ma integrativa», rassicura Piccolotti. E però Iovino chiosa: «Se poi qualcuno teme che Commo finisca per mettere in discussione certi vecchi cerimoniali consolidati, io personalmente rispondo: speriamo».
E qui arriviamo a un altro nodo sensibile. La tecnologia non è neutra, la sua gestione è potere. Trasparenza e democrazia sono due concetti molto relativi, online come offline.
Anche qui, vedasi ancora il caso Grillo, proprietario del suo mega-blog e quindi del suo movimento. Chi avrà le ’chiavi’ di «Commo»? Piccolotti: «A Cosmopolitica presenteremo il progetto che abbiamo sviluppato sulla base del mandato che Sel aveva dato a me già da tempo, da responsabile della comunicazione. Ma poi starà al nuovo soggetto, cioè a tutti noi, deciderne la responsabilità politica». A lavorarci, racconta, è un gruppo di ragazzi e ragazze, per lo più volontari. A regime faranno i turni.
A proposito, i costi. «Alcune decine di migliaia di euro fin qui, impiegati solo per lo sviluppo del sofware. Il resto è lavoro volontario», spiega Piccolotti. Altre fonti interne a Sel parlano di una cifra più alta, che bordeggia i 100mila euro, ma non ci sono conferme. I soldi investiti, spiega Piccolotti, vengono dai 100.991 contribuenti che hanno destinato il loro 2 per mille dell’Irpef a Sel, per il ragguardevole totale di 881.588 euro.
Ma, una volta sviluppata la piattaforma, Commo sarà low cost. «La moderazione delle discussioni sarà minima, giusto il necessario per cancellare gli insulti e stimolare il dibattito». Per il resto sarà apertissima: chiunque potrà scrivere, più riceverà commenti e interazioni più potrà essere visibile, «è una garanzia democratica, nessuna moderazione potrà censurarlo o nascondere nessun dissenso, come invece adesso può accadere nei siti dei partiti», giura Iovino. «Chiunque potrà proporre un tema e trovare nella piattaforma la sua amplificazione. O la possibilità di fare una consultazione».
La scommessa è che la partecipazione faccia crescere la politica. O viceversa. Possibilmente non solo online.
il manifesto 18.2.16
Nuove appartenenze e nuove solidarietà
Sinistra. L’appuntamento nazionale di Cosmopolitica è l’occasione per fare un altro passo nella sinistra italiana, guardando l’Europa e quel che succede nelle primarie Usa e nei laburisti inglesi
di Aldo Carra
Cominciamo da lontano. Sull’altra sponda dell’atlantico, nella patria del finanzcapitalismo, un candidato dichiaratamente socialista, e non è poco per quel paese, si candida al governo Usa contro le disuguaglianze e sull’onda di Occupy Wall Street. Sulla sponda europea, la sinistra laburista ha conquistato il partito, col sostegno di giovani e del sindacato.
Se scendiamo sulle sponde del Mediterraneo dal Portogallo, alla Grecia passando per la Spagna, contro le politiche di austerità sono nati nuovi soggetti, nuove aggregazioni, nuove alleanze. L’Italia per il momento è stata saltata, ma proprio per questo, a cominciare dall’assemblea di “Cosmopolitica”, non possiamo perdere più tempo.
I movimenti europei hanno un limite oggettivo: sono prigionieri di vincoli e logiche che impediscono loro di svolgere il ruolo che dovrebbero. L’Europa, in questa nuova divisione internazionale del lavoro e nel nuovo scenario geopolitico, non è riuscita a decollare ed a trovare un suo ruolo ed una sua collocazione. Sul piano economico è ormai chiaro a tutti che non si tratta di operare per una ripresa, intendendo così un ritorno al prima, ma per un cambiamento di modello di crescita.
In questo l’Europa per la sua storia economica, sociale, culturale potrebbe ambire a mettersi alla testa di una grande mutazione. Invece non è così. Siamo schiacciati da questa contraddizione, costretti a governate il presente, a farlo senza visione e senza consenso, a farlo guidati non dall’Europa, ma da chi ne tiene le fila, a scegliere tra austerità e populismi.
Eppure nel mondo degli economisti l’era dei grandi padri del monetarismo, del liberismo, della globalizzazione finanziaria è proprio tramontata ed i soli economisti che oggi fanno analisi adeguate e rigorose e hanno idee e proposte da avanzare appartengono tutti ad un’area che non possiamo che definire di sinistra.
E’ il grande paradosso dei tempi moderni. Per restare in Europa i principali protagonisti di questi ultimi anni sono stati Piketty prima ed Antony B. Atkinson adesso col suo “Disuguaglianza”. Ambedue offrono all’Europa un terreno nuovo di analisi e proposte. La chiave comune è il problema delle disuguaglianze, individuate non solo come elemento di ingiustizia sociale, ma come fattore importante della crisi economica e con una particolare attenzione non solo alle disuguaglianze di opportunità, ma anche a quelle di esito ed alla loro riproduzione intergenerazionale.
Tra le ricette comuni anche una profonda revisione delle politiche fiscali in senso progressivo e la tassazione delle ricchezze. Con proposte dettagliate ed argomentate, nel caso di Atkinson, alla ricerca di una quadratura tra spesa sociale ed imposte per finanziarla e con un dettaglio di possibili soluzioni tra le quali un reddito minimo universale di partecipazione (o reddito di cittadinanza attiva).
Non sarebbe male se analisi e proposte diventassero da noi oggetto di dibattito. Assumerle e farne discendere le conseguenti scelte politiche significherebbe avere un’Europa che guarda lontano. Ma qui è la nostra trappola. Quanto sembrano lontane ed impossibili queste proposte rispetto ai temi sui quali siamo inchiodati, con la guerra dei numeri in libertà ad ogni ora del giorno. Eppure da questa trappola dobbiamo uscire e dentro quel poco che nasce dobbiamo stare e dare il nostro contributo.
Tra ciò che si muove oggi possiamo collocare altre due iniziative. La prima, di respiro europeo è quella del Movimento per la democrazia lanciato da Varoufakis. Si tratta di una iniziativa tanto ambiziosa quanto necessaria che si colloca sul terreno giusto, quello sovranazionale, cercando di costruire un filo diretto tra popoli e dimensione europea, scavalcando le organizzazioni a livello nazionale e proponendo un metodo di lavoro fondato sulla costruzione dal basso di proposte e su un processo di sintesi ed aggregazione. La seconda iniziativa, lanciata da Piero Bevilacqua, sul manifesto è più interna e non meno ambiziosa dal momento che chiama le forze della cultura universitaria a dare vita ad una associazione per ricomporre i saperi frantumati dalle politiche neo liberiste. Ma se la prima è lontana nello spazio e vicina nel tempo, la seconda presenta caratteristiche opposte. Ambedue, comunque, costituiscono due occasioni straordinarie, due prossimi terreni di impegno per le persone di sinistra del nostro paese.
Resta da collocare in questo quadro il tentativo avviato al Quirino di procedere alla costruzione in Italia di una nuova forza di sinistra che sfocerà nella “Cosmopolitica” di fine settimana.
Il processo non sta marciando con tutte le forze previste, ma trattandosi di processo in itinere non è un dramma. Esso riprende il cammino con un gruppo promotore che vede personalità ex Pd, Sel, e giovani di Act e Tilt e la presenza della Lista Tsipras. Il metodo di lavoro scelto è molto articolato in tanti laboratori tematici e questa è già una buona partenza. Si tratta adesso di collocare anche questa iniziativa nello scenario tratteggiato e di fare in modo che la parola chiave del tutto sia “comporre”.
Non “ricomporre” perché non dobbiamo rimettere insieme le macerie del terremoto che ha travolto la sinistra italiana.
Comporre un mondo lacerato dalle divisioni del passato e dalle politiche del presente, comporre unità di analisi, di intenti, una nuova comunità di persone libere da appartenenze divisive e entusiaste di costruire nuove, aperte e dinamiche appartenenze e, soprattutto, nuove solidarietà.
Avevo proposto in un precedente articolo un percorso che ruotasse attorno ad una piattaforma digitale – Wikisinistra o Wikileft- per ricostruire il nuovo linguaggio della sinistra e per progetti, programmi, opzioni politiche.
Poiché dobbiamo creare sedi di lavoro comune anche con chi oggi non si sente coinvolto nel processo, penso dovremo prevedere che in tutti i territori nascano movimenti di costruzione aperti che, utilizzando sub-piattaforme locali o gruppi social, sviluppino ed arricchiscano quanto uscirà dai laboratori nazionali, coinvolgano altre strutture e soprattutto lavoratori, e soprattutto donne e soprattutto giovani e studenti, che possano produrre iniziative, azione politica, momenti di sintesi territoriali per arrivare al termine del processo di fine anno ad un appuntamento nazionale che speriamo sia la nascita del nuovo soggetto politico della sinistra.
“Cosmopolitica” non per perderci negli spazi intersiderali, ma per allontanarci dalla terra quel tanto che serve per guardarla con un po’ di distanza, per vedere quanto piccoli siamo noi, le nostre divisioni, le nostre beghe e per tornarci, quindi, con uno spirito nuovo capace di attrarre invece di respingere come spesso accade oggi. Allora se dimensione europea, rielaborazione del pensiero di sinistra nel tempo della crisi ed azione politica partecipata potessero toccarsi, potremmo dire che anche in Italia qualcosa si muove.
il manifesto 18.2.16
Il manifesto e gli apparati del rancore
di Luigi Manconi
Come è potuto accadere che una vicenda tragica e dolorosa, e tuttavia lineare come quella della morte di Giulio Regeni, sia diventata oggetto di tanti cattivi pensieri e di una così torva e maligna ostilità?
Alcuni articoli, pubblicati negli ultimi giorni in Italia e altrove, sono costruiti in maniera tale che una delle componenti più oscure della operazione — gli apparati dei servizi segreti — proietti un’ombra negativa sulla prima vittima di tutto ciò. Lo stesso Giulio Regeni, cioè. Il che ha costretto i suoi genitori a dover smentire una supposta appartenenza del giovane a servizi di intelligence. Vi rendete conto?
Ma tutto ciò è in qualche modo fatale, perché gli ambienti dov’è maturato quel crimine sono segnati dall’illegalità, propria degli apparati politico-militari, direttamente o indirettamente collegati al regime, che sono stati i più probabili autori dell’omicidio. Ma è come se quell’ombra di cui dicevo accompagnasse tutta la vicenda, gli attori, i comprimari e gli osservatori, confondendo ruoli e responsabilità e intorbidendo il clima e lo scenario.
Così è accaduto che, sin dalle ore immediatamente successive all’identificazione del corpo di Regeni, il quotidiano il manifesto venisse tirato in ballo in maniera davvero pretestuosa, diventando a sua volta oggetto di quei «cattivi pensieri» di cui all’inizio di questo articolo.
Le ordinarie e ben note difficoltà del rapporto politico e professionale tra un giornale militante, i suoi contatti e i suoi collaboratori sono diventate materia di una speculazione tanto gratuita quanto triviale.
La ritardata pubblicazione dell’articolo di Regeni, poi un’incomprensione con i suoi genitori — solo spiegabile con la concitazione di quelle ore drammatiche — e più in generale la complessità delle relazioni con società attraversate da lacerazioni crudeli e con chi ne è testimone e osservatore: tutto questo ha determinato sul web una inaudita aggressività nei confronti del manifesto.
Fino a mettere in discussione, dopo la sua morte ormai definitivamente accertata, la stessa legittimità a pubblicarne l’articolo.
La vicenda, infatti, oltre allo sgomento di tantissimi, ha suscitato in alcuni reazioni ingiustificate e di una veemenza tale da far sorgere il dubbio che non siano state le scelte editoriali dei giorni scorsi a determinare tanta asprezza: ma che altri sentimenti siano stati sollecitati e abbiano trovato spazio insinuandosi nelle pieghe di una situazione delicatissima.
Per definizione, sul web c’è tutto e il contrario di tutto: dovremmo essere capaci di assumere la giusta distanza per evitare di precipitarci dentro con tutte le scarpe.
Il web è la sede di cose magnifiche e di cose truci. E ci sono due circostanze capaci di incentivare ed eccitare queste ultime.
La prima circostanza è rappresentata dalla figura della vittima: a quella che può apparire come una sua mitizzazione si accompagna, quasi immediatamente, una procedura di denigrazione. È come se il web non sopportasse un eccesso di virtù e si sentisse obbligato a sfregiare quell’immagine presentata come «troppo pura».
La seconda circostanza, così intimamente correlata alla prima, richiama una sorta di frustrazione diffusa e di volontà di rivalsa verso quanti appaiono titolari di un patrimonio di prestigio e autorevolezza, ancor più se di spessore politico e di natura intellettuale. È il caso de il manifesto.
Questo giornale, da quasi mezzo secolo, rappresenta un presidio di intelligenza e di competenza giornalistica, retta da una costante curiosità nei confronti delle persone e del mondo e di una tenacia davvero esemplare nel volerli raccontare e interpretare. Come tutti, quel collettivo di giornalisti può commettere errori, anche gravi, e vivere contraddizioni e involuzioni. E io, che non mi dichiaro «comunista», come recita il sottotitolo di questa testata, non condivido molte opzioni, analisi, scelte.
Ma mai in questi quasi cinquant’anni ho dubitato della sua buonafede.
Dunque, perché circola sul web tanta acredine nei confronti di questo giornale?
Una mia idea ce l’ho: perché il web — azzerando tutte le posizioni, le soggettività, le competenze e le esperienze — esalta la volontà di rivalsa, fatta di rancori i più diversi e di mille umori che cercano libero sfogo. Chiunque, di conseguenza, può aspirare al ruolo di analista internazionale «più bravo di quelli del manifesto», e di denunciatore di complotti «più intransigente ancora», di giudice «dalla schiena dritta» della virtù altrui e di censore «senza se e senza ma» della morale di singoli e gruppi.
Ad aspirare a questo ruolo sono, in genere, persone la cui attività e le cui energie si esauriscono in un click o in un like. Ma la cui vanità viene esaltata dalla sensazione inebriante di poter sprezzare tutto e tutti.
il manifesto 18.2.16
La discreta classe delle idee
Scompare Nicolao Merker, il grande storico della filosofia dedito a Hegel e Marx
di Guido Liguori
Si è diffusa ieri la notizia della scomparsa di Nicolao Merker, avvenuta domenica. Lo studioso marxista se ne è andato silenziosamente, con quel fare riservato che ne costituiva un po’ la cifra stilistica. Scompare così un grande storico della filosofia e della cultura, la cui opera è segnata dalla volontà di farsi capire, di insegnare ai «non filosofi», per portare avanti un’opera scientifica e insieme civile profondamente democratica.
Nicolao Merker, nato a Trento, di madrelingua tedesca, dopo la morte del padre era stato inviato a studiare a Messina presso uno zio antifascista e comunista. Nella università messinese insegnava il grande filosofo Galvano della Volpe, caposcuola di un marxismo non storicistico, non hegeliano, non gramsciano, anche se disciplinatamente inquadrato nei ranghi del Pci di Togliatti. Laureatosi con Della Volpe nel 1953, Merker era stato ovviamente inviato dal suo maestro in Germania e messo a lavorare su Hegel. Il primo libro che era scaturito da questi studi giovanili (Le origini della logica hegeliana. Hegel a Jena, 1961) risentiva della lettura dellavolpiana, tesa a incastonare (un po’ riduttivamente) il filosofo di Stoccarda nel quadro della «arretratezza della Germania». Proprio questa «arretratezza» poi Merker prese a indagare, spiegandoci la Germania dei 360 staterelli post-Vestfalia, ma anche i tentativi che i rivoluzionari tedeschi (i «giacobini di Magonza» in primo luogo) intrapresero per uscire da tale condizione. Libri come L’illuminismo tedesco (1968), Lessing e il suo tempo (1972) e Alle origini dell’ideologia tedesca. Rivoluzione e utopia nel giacobinismo (1977), insieme a tante curatele, antologie, introduzioni (di autori quali Forster, Herder, Lessing, Kant, Fichte, Humboldt, Hegel) testimoniano di questa vastissima opera di scavo. Lo studio tanto accurato del mondo culturale tedesco tra Sette e Ottocento porta Merker ad assumere un tratto che potremmo dire «gramsciano»: un grande interesse per gli intellettuali considerati minori, che costituiscono però un anello fondamentale per la costruzione del «senso comune», tanto importante per il comunista sardo.
Intanto Merker si fa strada nell’università: insegna a Messina Storia delle dottrine politiche, poi viene chiamato alla Sapienza di Roma (in un ambito filosofico in cui il dellavolpismo ha sempre avuto grande peso), dove per molto anni ha la cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea. Sono lezioni seguitissime, grazie anche alla sua capacità di spiegare i testi, di renderli comprensibili, divenendo egli stesso un formatore di senso comune. In questo quadro, sono importanti il manuale di Storia della filosofia per i licei, opera collettiva che si avvale della collaborazione di molti studiosi, non solo italiani, e che esce, come l’Atlante di filosofia, per gli Editori Riuniti. Con la casa editrice del suo partito, il Pci, Merker collabora assiduamente, con una capacità di lavoro e una versatilità ammirevoli: organizza la sezione di filosofia dei Libri di base di Tullio De Mauro, e nel contempo è protagonista nella ripresa della pubblicazione delle opere complete di Marx ed Engels, rivedendo traduzioni, correggendo strafalcioni di antica data, consegnandoci volumi di grande rilievo. Ma edita anche singoli testi marxiani e antologie (come la bella raccolta La concezione materialistica della storia), che hanno grande diffusione.
Negli anni Novanta Merker studia l’austromarxismo e la socialdemocrazia tedesca (mettendone in luce «miraggi e delusioni»). Ma esplora con altrettanti volumi anche la storia culturale della Germania «da Lutero a Weimar», l’idea di nazione e l’ideologia del nazismo, i miti della Grande Guerra e quelli del colonialismo sedicente «civilizzatore», e le Filosofie del populismo. Senza ovviamente dimenticare il prediletto Marx: il suo Karl Marx. Vita e opere (2010) costituisce ancora una delle migliori introduzioni al rivoluzionario di Treviri. L’ultimo suo contributo, da poco in libreria, sono i due capitoli compresi nel primo volume della Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani per Carocci. Ma siamo sicuri che altri progetti erano già in divenire, sul suo tavolo di lavoro.
il manifesto 18.2.16
Fascismo da museo a Predappio
Storie. Un polo di documentazione dedicato al Ventennio da realizzare entro il 2019 nell’ex Casa del fascio: il sindaco (Pd) sfida le polemiche, il governo finanzia con 2 milioni. L’Anpi rilancia: un centro studi sulle dittature del 900 e sugli atroci crimini del fascismo
di Mario Di Vito
Il museo del fascismo di Predappio è una di quelle storie che si infilano nelle discussioni quasi per caso e poi non ne escono più: tra sparate e precisazioni, fughe in avanti e passi indietro, alla fine capirci qualcosa diventa difficile e le buone intenzioni ci mettono un attimo a diventare pessime rappresentazioni.
Andiamo con ordine: benvenuti a Predappio, paese natale di Benito Mussolini, seimila anime a sud di Forlì, meta preferita dei nostalgici di tutto il paese che periodicamente vanno a visitare la casa dove nacque il duce o la cripta che ne conserva le spoglie. In mezzo: negozi di souvenir con abbondanza di paccottiglia fascistoide.
Al di là di questo, Predappio sarebbe anche un paese, per così dire, di compagni, con Pci-Pds-Ds-Pd saldamente al timone del municipio più o meno da sempre.
La questione del museo del fascismo, da mettere in piedi all’interno dell’ex Casa del fascio all’uopo restaurata, è esplosa qualche giorno fa dopo un paio di articoli usciti sulla Stampa e sul Corriere della Sera: si tratterebbe, nello specifico, di un «centro di documentazione» di 2.700 metri quadrati con una torre alta 40 metri, tre piani circondati di marmi e facciata in stile razionalista.
Costo dell’operazione: circa 5 milioni di euro, una parte dei quali dovrebbe metterli il governo.
Cosa ci sarà dentro? Non si sa bene. O meglio, per ora si sa quello che non ci dovrebbe essere.
Dice l’assessore alla Cultura della Regione Emilia Romagna Massimo Mezzetti: «Non un museo statico, ancor meno nostalgico o rievocativo, ma un centro vivo di riflessione, studio, documentazione e divulgazione contro tutte le forme di dittatura», qualsiasi cosa voglia dire.
L’Anpi, in un comunicato, la mette in modo leggermente diverso, precisando di aver partecipato «alla discussione del progetto esclusivamente come osservatore» e che comunque «la nostra posizione è di ferma contrarietà a qualsiasi iniziativa celebrativa del fascismo. Altro sarebbe, da esempio, l’ipotesi di dar vita a un centro studi sulle dittature del Novecento che evidenziasse, in particolar modo, l’aspetto preponderante del fascismo ossia gli atroci crimini commessi nel corso di tutta la sua esistenza».
Andando indietro di qualche mese viene fuori che lo ‘scoop’ appartiene al Foglio, che diede la notizia lo scorso settembre, con un intervista al sindaco di Predappio Giorgio Frassinetti. Definito «renziano di ferro», il primo cittadino spiegò la questione con un tono da «se avanzo seguitemi» non esattamente edificante: «Non possiamo cancellare la storia, questa è una battaglia culturale» e ancora: «Il nostro paese si comporta spesso come un bambino che dopo una brutta esperienza decide di farla cancellare e fare finta di nulla. Chi si comporta così nasconde un problema. Io voglio un museo del fascismo, anche se so che museo non è la parola giusta perché monumentalizza, celebra, e io voglio soltanto raccontare, mettere in mostra».
Frassinetti così arriva a definire «stronzate» le perplessità di chi teme che in questo modo Predappio potrebbe trasformarsi sul serio nella Medjugorje dei neofascisti italiani.
La conclusione dell’intervista fa il resto: «So già che ci saranno polemiche. Ma so già anche che la storia un giorno dirà che avevo ragione. Io sono di sinistra, con una formazione fortemente di sinistra. Non ho paura di critiche e contestazioni».
Frassinetti sostiene di essere in costante contatto con Roma, visto che il dossier sarebbe già nelle mani del sottosegretario Luca Lotti. La settimana prossima, nel paesino romagnolo, dovrebbero arrivare dei tecnici inviati direttamente da Palazzo Chigi per valutare se e come intervenire.
il manifesto 18.2.16
L’anormalità storica nel cuore della Romagna
di Davide Conti
Non è raro che il peso della storia finisca per entrare in modo ingombrante nella vita di piccole cittadine. Braunau Am Inn è un piccolo comune austriaco che pochi conoscerebbero se non avesse dato i natali ad Adolf Hitler.
La casa del fuhrer nazista nel corso degli anni è stata più volte oggetto di dibattito pubblico rispetto al suo utilizzo e oggi, divenuta meta di visite guidate di studio, di fronte all’indirizzo di Salzburger Vorstadt 15 poggia una pietra memoriale che scolpisce le parole «Pace, Libertà, Democrazia. Mai più fascismo. Milioni di morti ricordano».
Predappio dal 1957 (anno in cui il governo presieduto da Adone Zoli consegnò la salma di Mussolini alla famiglia per la sepoltura) è invece luogo di manifestazioni fasciste, adunate nostalgiche della «marcia su Roma» o celebrazioni dei giorni di nascita e morte di chi si ritiene «orfano» del duce, delle leggi razziali, delle guerre d’aggressione e della repressione politica e sociale del ventennio mussoliniano.
In un paese sito nel cuore della «regione rossa», in cui il consiglio comunale è da sempre governato dalla sinistra, tutto ciò si è verificato per sessant’anni nella più totale e consueta «anormalità storica» tipica del costume italiano. Così la notizia del progetto di costruzione di un museo del fascismo da realizzare per il 2019 (peraltro centenario della fondazione dei fasci di combattimento di Mussolini) assume un carattere e un significato paradossale che superano anche la volontà del sindaco e delle istituzioni locali di costruire, in buona fede, un luogo di studio della dittatura italiana.
In epoca di «narrazioni condivise» e promulgazioni di leggi sulla memoria, la tendenza a fare del museo nella città natale di Mussolini un luogo dove «storicizzare» il ventennio, secondo la retorica che espunta dal contesto degli studi di Renzo De Felice divenne una formula cara alla trasformazione in post-fascisti degli eredi di Salò, si configura già come un inevitabile piano inclinato. Palmiro Togliatti nelle sue «Lezioni sul fascismo» invitava alla comprensione analitica di cosa era stato il regime, quali erano state le peculiarità italiane; le vicende storico-nazionali; i conflitti e i rapporti di forza tra le classi che avevano concorso all’ascesa del regime, alla sua durata e al suo consenso. Se il fascismo riuscì a ergersi al potere come «regime della menzogna» — secondo la celebre formula di Piero Calamandrei — è pur vero che l’«autobiografia della nazione» rappresentata da Gobetti più di altre immagini evoca lo spettro mai del tutto esorcizzato del ritorno a quello spirito primordiale. Un museo del fascismo avrebbe il compito di trasformarsi in un luogo in cui poter fare e chiudere i conti con quel «passato che non passa» e trasformarsi in un luogo di studio, ricerca e cultura democratica e antifascista. Ma l’immagine dei gadget mussoliniani sulle bancarelle nelle strade di Predappio o le sessantennali sfilate dei neofascisti italiani ed europei non sembrano un buon viatico. Così non ci abbandona l’idea fastidiosa che, posta all’ingresso del museo, una targa come quella piantata a Braunau Am Inn durerebbe, forse, lo spazio di un mattino.
FP 31.1.16
Giornali Fiat, verso la fusione L’Espèresso con La Stampa. E Rcs...
qui
http://www.formulapassion.it/2016/01/fiat-verso-la-fusione-lespresso-con-la-stampa-e-rcs/
Federico Tulli
La Provincia Pavese 18.2.16
La Chiesa, la pedofilia e i cronisti di Spotlight
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/tulli_provincia_pavese_18.02.2016_1?workerAddress=ec2-54-211-171-172.compute-1.amazonaws.com
Giovanni Senatore Ufficio Stampa L’Asino d’oro