giovedì 18 febbraio 2016

Il Fatto 18.2.16
Pd a pezzi: unioni civili in bilico, addio adozioni
I dem cercano una soluzione ma sono appesi
ai voti di Alfano e dei cattolici. Renzi non ci mette la faccia

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Il Sole 18.2.16
La via stretta di Renzi tra Monti e Grillo
di Lina Palmerini


Non ha usato il fioretto Monti contro Renzi. Ha parlato di clave e scalpello e lo ha accusato di una distruzione sistematica dell’Ue. Dalla parte opposta, non è stato leggero Salvini che ha chiamato il premier servo della Merkel. O il grillino Sibilia che alla Camera ha rispolverato il referendum anti-euro. Oggi il Parlamento italiano è questo, non siamo più nel 2011. Le posizioni montiane sono minoritarie e la via di Renzi verso l’Europa è più stretta.
Ieri il premier doveva riferire a Camera e Senato del vertice europeo e dei temi più scottanti che saranno in agenda. E ha parlato di immigrazione - soprattutto - di cui si discuterà nel Consiglio Ue di oggi e domani ma anche di flessibilità economica che è fuori dal menù ma che resta la battaglia di Renzi non solo fuori dai confini italiani ma anche dentro i nostri stessi confini. Se, infatti, sulla questione migranti subisce l’offensiva solo dell’opposizione - ma non di parti della sua maggioranza - sui temi economici è scattata una grande guerra interna che parte da Mario Monti e arriva alla minoranza Pd sempre più critica con i toni usati dal premier a Bruxelles e contro Berlino.
Ieri, in Parlamento, c’è stata la rappresentazione di tutto questo. Con la scena madre - andata in onda a Palazzo Madama - del duello tra l’ex premier Monti e quello attuale. Botte da orbi, si direbbe, sia pure solo verbali. Nessun colpo Monti ha risparmiato a Renzi accusandolo di denigrare e distruggere l’Europa e tutti i colpi gli ha restituito il presidente del Consiglio trattandolo come la quinta colonna dei tedeschi in Italia e come parte di un nuovo “complotto” contro di lui ordito da ex premier e ambienti europei. Ma questo è solo un aspetto, del tutto marginale, di quello che si è visto ieri. Perché in entrambe le Camere è stato chiarissimo come il Parlamento italiano non sia più quello del 2011-2013 dove Monti aveva una larghissima maggioranza e fece approvare la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio in sei mesi. In quel tempo, gli anti-europeisti erano una ristretta minoranza relegata alle ali estreme, a sinistra con Sel e a destra con la Lega, ma oggi è la posizione di Monti a essere diventata più minoranza di quella di quattro anni fa.
Oggi Renzi deve fare i conti con forze politiche come quelle che si sono ascoltate in Aula. A cominciare dai grillini che con il loro cospicuo pacchetto di seggi parlamentari e di voti nel Paese hanno rispolverato posizioni anti-euro e – a Montecitorio – hanno chiesto, con la voce di Carlo Sibilia, la possibilità di indire un referendum sull’uscita dalla moneta unica e sul sistema bancario. E più pesante ancora è stato Salvini che ha parlato del premier come del “servo” della Merkel nonostante proprio Renzi stia rischiando grosso in Europa proprio per le posizioni assunte con Berlino e con Bruxelles. Ed è pure chiaro che Forza Italia non potrà mai stare sulle stesse posizioni di Monti ma è più attratta dall’orbita dell’euroscetticismo e più in particolare del Merkel-scetticismo. Bene, questo è il panorama esattamente speculare alla Germania dove pure la Cancelliera ha i suoi problemi.
Dunque è chiaro che il premier, come tutti i leader europei attuali, deve cercarsi una via stretta - ma politicamente obbligata - verso una posizione europeista “temperata”. Che lo tenga lontano dall’agenda del Governo Monti ma che non sia nemmeno lo strappo su cui premono i 5 Stelle o la Lega tirandosi dietro pezzi di Forza Italia. Come e se sia possibile non è ancora chiaro. Anche perché le carte non sono in mano solo al Governo italiano come si vede sulla dirompente questione della moratoria su Schengen. Nel senso che potrebbero essere altri Paesi, prima ancora che le discusse e criticate politiche renziane, a distruggere l’Europa a colpi di clava e scalpello. Per esempio, basterebbe che l’Austria applicasse ciò che minaccia sulla chiusura delle frontiere.

Il Fatto 18.2.16
Carlo Freccero Il consigliere d’amministrazione: “Cdo mi ha detto: garantisco io su di lei” “Tutto bene a parte Daria. Ora sotto ai tg”
di Giampiero Calapà

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Il Fatto 18.2.16
A capo di Rai3
Il grande feeling con Renzi
Lady Bignardi, poco share ma gli amici giusti
Dal primo Grande Fratello al cane di Mario Monti, l’incredibile scalata della “prescelta” del premier
di  Carlo Tecce

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Il Sole 18.2.16
Ue all’Austria: tetto ai profughi illegale. Renzi: no a chiusura Brennero
di Vittorio Da Rold

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Il Sole 18.2.16
Per grandi decisioni servono grandi leader
di Sergio Fabbrini

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Il Sole 18.2.16
La grande solitudine di Merkel in Europa
di Alessandro Merli


Sono «i giorni del giudizio» per Angela Merkel, secondo il conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung spesso allineato, recentemente, con i critici più severi del cancelliere. Ed è vero che mai, in quasi 11 anni al potere, il capo del Governo tedesco si è trovato così isolato in Europa e in casa propria. La “regina senza corona” d’Europa è stata spodestata, scrive ancora la Faz. A buttarla giù dal podio dove finora aveva condotto l’orchestra europea, la questione dei rifugiati.
Ieri in Parlamento, dove il numero degli scettici cresce soprattutto nel suo partito, la Cdu, e nella gemella bavarese Csu, la signora Merkel ha ripetuto che «spesso ci vuole tempo per trovare le soluzioni ai problemi, ma ne vale la pena». È il suo mantra da sempre, anche se non è detto che stavolta giocare sui tempi lunghi le sia possibile. Ieri il cancelliere non ha rinnegato la sua posizione di fondo: «Chi ha bisogno e cercherà protezione, dovrà riceverla». Però otto mesi dopo la sua proclamazione di porte aperte e il lancio dello slogan “Ce lo possiamo fare”, e dopo oltre un milione di arrivi, sono molti i dubbi sulle possibilità di successo della sua strategia basata su tre pilastri: combattere le cause che generano la fuga dei profughi dalla Siria e dall’Iraq(e domani, probabilmente, di nuovo dalla Libia); controllare i confini esterni della Ue, soprattutto in Grecia e in Turchia, frenando gli afflussi; regolamentare la ripartizione nella Ue. Nessuno di questi tre elementi sta funzionando, o funziona con la rapidità necessaria per disinnescare una bomba a tempo politica.
Al vertice europeo, Angela Merkel arriva con pochi amici. Il premier francese Manuel Valls è venuto a Monaco a spiegare che la Francia prenderà i 30mila profughi concordati e non uno di più. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha fatto dell’azione di disturbo nei confronti della Germania una tattica di recupero di consenso. I Paesi dell’Est sono nettamente sul fronte opposto, con il premier ungherese Victor Orban il più aspro critico della signora Merkel, anche se la riunione del gruppo di Visegrad (Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca e Ungheria) ha un po’ smorzato i toni. Persino l’alleato austriaco, il cancelliere Werner Faymann, nell’annunciare controlli più severi ai confini e un tetto agli ingressi ha lanciato una premonizione: «La Germania farà come noi». È quello che Angela Merkel ha finora rifiutato, nella sua ricerca di una soluzione europea. Il tentativo di coagulare un gruppo di Paesi “volonterosi” per la ripartizione dei profughi, una volta tamponati gli arrivi con l’aiuto della Turchia (altro anello debole della strategia del cancelliere), appare un po’ come un’ultima spiaggia per l’attuale linea di Berlino. L’apertura della signora Merkel ai rifugiati è stata unilaterale, il problema se lo risolva da sola, dicono le sue controparti meno accomodanti.
L’opposizione in Europa si è saldata con quella interna: la rappresentazione più evidente si è avuta con il leader bavarese, Horst Seehofer, fianco a fianco con Orban e freddo al limite dell’insolenza nei rapporti con la signora Merkel. Sullo sfondo la crescita degli xenofobi di Alternative für Deutschland, che sono ormai in doppia cifra anche a livello nazionale, e ben al di sopra nelle regioni dell’Est. Le elezioni regionali del 13 marzo in Baden-Württemberg, in Renania-Palatinato e in Sassonia-Anhalt si sono trasformate in una sorta di referendum sulla politica del cancelliere sui rifugiati. La sua popolarità è scivolata ai minimi da quattro anni, soprattutto dopo le violenze di Capodanno a Colonia contro centinaia di donne a opera di bande di immigrati, e quel che più preoccupa i suoi colleghi di partito, l’unione Cdu/Csu è scesa nei sondaggi sotto il 35%, dal 41%. Qualcuno ventila la possibilità che la signora Merkel debba sottoporsi all’umiliazione di un voto di fiducia, ipotesi che le persone a lei più vicine smentiscono seccamente. A suo favore gioca per ora la mancanza di una vera alternativa, mentre potrebbe essere proprio il voto regionale, nello scenario non impossibile che la Cdu si aggiudichi due Länder su tre, a far guadagnare alla signora Merkel un po’ del tempo di cui ha bisogno. Senza dimenticare che, arrivata alle elezioni del 2013 sulla scia di una sequela di sconfitte regionali, il cancelliere ha poi centrato la riconferma sfiorando la maggioranza assoluta. E il prossimo voto politico sarà in autunno 2017.
Il numero chiave, più dei suffragi e dei sondaggi, è quello degli arrivi dei rifugiati: se resterà attorno ai 2mila al giorno e non esploderà con la bella stagione, se un minimo di cooperazione europea e con la Turchia comincerà a funzionare (e sono tutte grosse incognite), forse Angela Merkel può sperare che si avveri la dichiarazione del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, alla “Bild”, il quotidiano popolare che finora ha continuato a sostenere la linea del cancelliere, un alleato importante: «La storia le renderà giustizia. La sua posizione sui rifugiati sarà ricordata come quella di Helmut Kohl sulla riunificazione tedesca». I tempi della politica, purtroppo per il cancelliere, non sono quelli della storia.

Il Sole 18.2.16
Pechino è lontana da quello status
La disputa su Cina ed economia di mercato
Non c’è nessuna fretta ad eliminare le misure antidumping
di Fabrizio Onida


Nessuno costringe l’Europa a eliminare entro novembre le 52 misure anti-dumping attualmente vigenti contro le importazioni dalla Cina di prodotti di acciaio, ceramica, meccanica e altro: prodotti che peraltro pesano in tutto meno dell’1,4% sul totale delle importazioni europee da quel paese. Un paese è accusato di dumping quando la sua esportazione di un particolare prodotto è offerta a un prezzo inferiore a quello praticato per lo stesso prodotto sul proprio mercato interno: un “prezzo predatorio” di concorrenza sleale che crea o minaccia gravi danni all’occupazione del paese importatore. Tutto ciò, bisogna dire, con buona pace della teoria microeconomica della concorrenza imperfetta e oligopolistica, che considera il “prezzo predatorio” un possibile normale strumento di strategia temporanea dell’impresa che cerca di penetrare un nuovo mercato .
L’Accordo Anti Dumping sottoscritto alla nascita della WTO (1995) prevede che, nel caso di merci provenienti da “economie non di mercato” (oggi Cina, Vietnam, Albania, diversi paesi ex-Unione sovietica) i cui prezzi interni si suppongono non credibili perché distorti dall’intervento statale, il calcolo del margine di dumping e dei conseguenti legittimi dazi prenda come base di comodo prezzi praticati per lo stesso tipo di prodotto da un paese terzo considerato “di mercato”. Ovviamente ciò provoca intricati contenziosi presso i tribunali della WTO, che in molti casi – come quello EC Fasteners su viti e bulloni importati dalla Cina – ha visto l’Appellate Body della WTO dare due volte torto all’Europa che lamenta danni per un miliardo di dollari.
Ora l’art. 15 (d) del protocollo di accesso della Cina alla WTO (10 novembre 2001) prevede che dopo il periodo transitorio di 15 anni alla Cina venga riconosciuto il MES (Market Economy Status), mettendo quindi in crisi gli attuali dazi antidumping praticati da Usa e Ue. Ma attenzione: il MES non ha una definizione uniforme per tutti, bensì viene riconosciuto «in conformità alle regole proprie dei singoli paesi membri». Gli USA hanno già fatto intendere che alla scadenza del prossimo novembre non riconosceranno il MES alla Cina. E dato l’impianto pervasivamente dirigista dell’economia cinese, come più volte ricordato anche su queste pagine (Paolo Bricco, Adriana Cerretelli e altri) la Ue ha ampi spazi per seguire la stessa linea, mantenendo aperto un lungo contenzioso giuridico.
Tutto bene, purché non si perdano di vista altri dati di realtà come i seguenti.
Primo, in caso di ripetute soccombenze della Ue davanti al tribunale d’appello WTO, la Cina verrà autorizzata dalla stessa WTO a imporre sanzioni di vario tipo che penalizzino le esportazioni europee verso il proprio mercato (ricordo i vini italiani nel 2013 durante le dispute sui pannelli solari). Nelle guerre commerciali, quasi sempre imposte da abili lobby di settore, bisogna sempre calcolare le contromosse dell’avversario, e chiedersi se il gioco porta vantaggi netti a paese.
Secondo, esistono anche in Europa e in Italia molti produttori ed esportatori contrari ai dazi sull’acciaio e altri prodotti intermedi cinesi, perché minori prezzi all’importazione di importanti componenti di costo favorirebbero la nostra competitività per molti manufatti, come prodotti di metallo per casa e ufficio, componenti auto-motoveicoli, elettrodomestici.
Terzo, se l’Europa rinunciasse agli attuali dazi antidumping, le regole WTO prevedono comunque dazi e altre misure di difesa anti-sussidio (countervailing measures). Certo bisogna dimostrare (cosa non facile ma non impossibile) l’entità del sussidio pubblico agli esportatori cinesi, nonché il fatto che il danno ai nostri produttori deriva direttamente dall’esistenza di quei sussidi e non da altre cause contingenti.
Infine, più in generale, occorre sempre chiedersi quanto serve alla lunga difendere dalla concorrenza estera produzioni domestiche ereditate dalla storia, anzi che accompagnarne un rapido ridimensionamento spostando le risorse nazionali verso prodotti e settori nuovi, ovviamente con interventi di politica attiva di welfare e lavoro.