il manifesto 17.2.16
Sinistra, sfida per l’egemonia
Intellettuali
 antiliberisti. Ritrovare una connessione tra la lettura critica del 
presente, fondata su robuste basi teoriche, e i luoghi e gli strumenti 
con cui filtrare la produzione intellettuale nella cultura politica 
diffusa
di Antonio Floridia
L’intervento di Piero
 Bevilacqua non sollecita soltanto una riflessione sulla 
parcellizzazione dei saperi: da qui si può partire, infatti, anche per 
affrontare un problema immediato, legato alle sorti del nuovo partito 
della sinistra che si vuole costruire.
Un tratto costitutivo e 
originale di questa nuova formazione dovrebbe essere la sua capacità di 
ricreare, e di ripensare su basi nuove, un rapporto tra cultura e 
politica, oggi profondamente logorato o del tutto inesistente.
L’assenza
 di questo rapporto si materializza in un dato: da una parte, non si può
 dire che sia assente una produzione intellettuale — anche di alto 
livello — che possiamo definire «critica» (ovvero, che non si adegua ad 
una qualche visione apologetica del presente); dall’altra parte, queste 
idee non riescono in alcun modo a farsi cultura politica, cioè a 
diventare forma di auto-comprensione dei comportamenti politici. Uno 
scarto, insomma, tra ciò che il pensiero critico e democratico del 
nostro tempo comunque produce e il suo essere in grado di tradursi nelle
 idee e nel senso comune della prassi politica quotidiana.
Un solo
 esempio: la teoria e la filosofia politica contemporanea riflettono da 
tempo su una definizione ideale e normativa di democrazia, sui modi 
possibili con cui essa può misurarsi oggi con due grandi temi:
a) 
il pluralismo irriducibile delle visioni del mondo e l’interrogativo sul
 come costruire, in queste condizioni, una base condivisa di consenso 
sui fondamenti di una democrazia costituzionale;
b) la tensione 
tra la logica impersonale e funzionale degli imperativi sistemici 
globali, che agiscono alle spalle degli individui, e la necessità di 
riconquistare e garantire una nuova forma della sovranità democratica 
dei cittadini.
Ebbene, chiediamoci: cosa passa o resta di tutto 
questo nell’idea diffusa di democrazia che orienta la cultura politica 
diffusa, anche quella di coloro che continuano a definirsi, e sono, 
progressisti, democratici e di sinistra? Poco.
Capita anzi di 
constatare come spesso, in realtà, si esprimano idee — nel migliore dei 
casi — del tutto fuori tempo rispetto ai compiti del presente -, ma 
molto spesso anche implicitamente gravate da altre fonti, e da fonti non
 controllate. Ad esempio, agisce una visione schumpeteriana della 
democrazia come mera selezione competitiva delle elites o, per altro 
verso, una visione ingenuamente direttistica e anacronistica della 
partecipazione popolare.
Ma lo stesso vale per la cultura 
economica: e basti qui richiamare una celebre battuta di Keynes: «Le 
idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come 
quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. (…) 
Gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da ogni influenza 
intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto (…)
 odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche 
scribacchino accademico di pochi anni addietro».Insomma, il concetto 
gramsciano di senso comune, come stratificazione spesso incoerente e 
irriflessiva di idee ricevute, non ha perso nulla del suo valore. Ma 
dove nasce questo scarto? Sarebbe troppo facile addebitarlo (ma 
nondimeno è una parte della spiegazione) all’assenza di buone letture, o
 alla logica dell’usa e getta che oggi domina anche il mercato delle 
idee. Il problema è che, da un trentennio almeno, si è spezzata una 
qualche connessione organizzata tra produzione intellettuale e cultura 
politica, in grado di produrre egemonia. I canali si sono interrotti. E 
si possono individuare due lati del problema.
Da una parte, una 
malintesa lettura della cosiddetta crisi delle ideologie e l’idea che i 
partiti possano reggersi solo sui programmi e non anche, e prima di 
tutto, su una visione della società, dei suoi conflitti, delle possibili
 alternative (su un sistema di idee, conoscenze e paradigmi, che 
plasmano programmi e strategie). Su questo punto, qualsiasi progetto di 
ricostruzione della sinistra deve sforzarsi di reinventare delle 
istituzioni di raccordo stabile tra tre livelli fondamentali: la 
produzione scientifica e intellettuale «alta», la cultura politica 
diffusa, le idee che ispirano l’auto-comprensione dei singoli individui 
(il loro senso comune).
Ma una spiegazione adeguata di quello 
scarto richiede altro. E non può che richiamarsi all’esito della vicenda
 storica del movimento operaio, socialista e comunista, nel Novecento. 
Schematizzando, si può qui dire questo: la sinistra, sia nelle varianti 
socialdemocratiche che in quelle comuniste, ha sempre pensato la propria
 funzione come inscritta, incastonata, in un movimento oggettivo della 
storia.
La politica era pensata dentro un qualche orizzonte 
finalistico: ed era questo orizzonte che dava senso all’azione 
quotidiana e unificava i saperi. La teoria doveva essere la levatrice di
 questo movimento delle cose, mentre dalla struttura sociale emergeva il
 soggetto collettivo che se ne poteva fare interprete.
L’idea che 
un altro modello di società fosse possibile, ed anzi concretamente 
avviato alla realizzazione in qualche parte del mondo, agiva come 
potente collante delle forme di coscienza collettiva.
Tutto 
questo, oggi, è finito, ed è impossibile recuperare una qualche idea di 
orizzonte a cui rifarsi. Né può supplire a questo vuoto un richiamo ai 
valori: anche laddove si riuscisse a sfuggire ai rischi della retorica, 
un valore ha poi sempre bisogno di essere tradotto in un orientamento 
politico e programmatico.
Ma se non può esserci più alcun 
ancoraggio ad un senso della storia, ad una direzione che unifichi 
conoscenze scientifiche, coscienza teorica e prassi politica, non per 
questo è venuto meno il bisogno di dare un senso a ciò che accade. Il 
nostro orizzonte, oggi, può essere solo quello della nostra epoca, e le 
possibilità di cambiamento devono essere intese non come l’aspirazione 
soggettiva di qualcuno, ma come una risposta credibile ai problemi del 
presente, e come una potenzialità già inscritta nei fatti che abbiamo 
sotto gli occhi. È questo il terreno su cui riconnettere produzione 
intellettuale e cultura politica. La sinistra, in particolare, deve 
assumere fino in fondo su di sé il compito di ridefinire le forme e il 
senso della democrazia, globale e locale, nel nostro tempo: e non è un 
compito pacifico. La battaglia delle idee, come la si definiva un tempo,
 non ha esiti scontati.
Che vuol dire, oggi, «crisi della 
democrazia»? Se vuol dire ingovernabilità, allora hanno un senso le 
risposte e le pratiche istituzionali di tipo plebiscitario e 
decisionistico, che oggi prevalgono; se vuol dire crisi di 
legittimazione, occorre cercare altre risposte. E il confronto non è 
solo tra il neoliberismo (formula che rischia di diventare un comodo 
pass-partout) e la sinistra (vecchia o nuova): vi sono letture diverse 
anche tra coloro che pure si oppongono allo stato di cose presente. Da 
alcuni versanti antagonistici, ad esempio, provengono letture 
apocalittiche della democrazia, che in modo molto disinvolto 
sottovalutano la necessaria difesa di uno stato costituzionale di 
diritto e buttano alle ortiche ogni idea di democrazia rappresentativa. O
 che si appellano al proliferare di micro-conflitti prodotti da 
soggettività mutevoli e contingenti, magari da unificare con la 
creazione artificiale di un popolo. Non sono temi, questi, da 
considerare oggetto di convegni e seminari: dall’idea di democrazia che 
abbiamo in testa discendono anche i comportamenti politici quotidiani.
Una
 lettura critica del presente, fondata su robuste basi teoriche e solide
 acquisizioni scientifiche, da un lato; e dall’altro, i luoghi e gli 
strumenti con cui filtrare la produzione intellettuale nelle idee e 
nella cultura politica diffusa: se non si ricostruisce questa 
connessione, una qualche egemonia — con quello che questa vecchia parola
 evoca — avrà comunque modo di affermarsi. Ma non sarà della sinistra.
 
