martedì 16 febbraio 2016

il manifesto 16.2.16
Il partigiano del dovere
«Piero Gobetti. Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918-1926», la raccolta dei suoi testi a cura di Paolo Di Paolo, in un libro uscito per Feltrinelli
di Francesco Postorino

Non smette di suscitare ammirazione la figura complessa di Piero Gobetti (di cui in questi giorni si celebrano i novant’anni dalla scomparsa). La recente raccolta di alcuni suoi scritti, curata da Paolo Di Paolo e pubblicata da Feltrinelli (Piero Gobetti. Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918–1926, pp. 220, euro 9,50), ripropone l’immagine di un intellettuale atipico, morto a soli 24 anni, con il fisico debilitato a causa delle percosse squadriste.
Allievo di Einaudi e di Salvemini, vicino a Gramsci e al suo «Ordine Nuovo», Gobetti s’ispira alle lezioni di estetica impartite da Croce. La poesia è il luogo privilegiato di un’interiorità che cerca chiarezza ed espressione. Per questo, il giovane torinese predilige l’«unità» dell’opera di Pirandello rispetto al bieco opportunismo del futurista Marinetti. Sostiene, inoltre, che i critici d’arte non possono occuparsi di questioni marginali, di schematismi e «sillogismi» vari, tralasciando colpevolmente l’autentica bellezza. Dai suoi brani trapela un insolito intreccio tra politica e amore. Il suo stile nervoso, da un lato, accompagna una forte ansia di riforme, dall’altro rende esplicito il suo incontro spirituale con Ada.
In politica occorre combattere, misurarsi di volta in volta con la religione del vizio, con chi non sente il valore «incrollabile» dell’intransigenza. In una guerra senza pause, chi depone le armi ha cessato di vivere. In amore è diverso. Chi ha la fortuna di incarnare il proprio ideale nel volto di «lei», raggiunge la pace. Ada, infatti, completa la dimensione di Piero.
Gobetti comprende di essere vivo perché la sua compagna lo protegge dalle intemperie dell’anima. Non si tratta della falsa tranquillità di chi interpreta il sentimento come un modesto ufficio o un’«abitudine di sopportazione». L’amore è un atto di fede che non si piega alle regole del tempo e del finito. Senza maschere, le due biografie si tingono di vero e non temono le sconfitte di domani. La politica mantiene, invece, un divario irriducibile tra il reale e l’ideale. L’uomo della verità soffre per il cinismo che caratterizza il ceto dominante.
L’ideale «religioso» di Gobetti è il movimento operaio. Solo le classi subalterne possono salvare un Paese soffocato dall’egoismo borghese. Di qui la sua fervida attenzione alla rivoluzione bolscevica e ai Consigli di fabbrica. Contro le dottrine del socialismo riformista e del pigro umanitarismo, la prospettiva democratica di Gobetti consiste in quel che già si diceva a proposito dei suoi affetti: «il palpito esultante ed inebriante della vita», l’azione che ricopre l’essenza di chi agisce, il bisogno di essere sempre se stessi nel continuo riscatto morale.
Egli reputa più attuale la teoria della lotta di classe di Marx rispetto all’ideale «nebuloso» di Mazzini. La sua passione libertaria per le masse si coniuga inoltre con un convinto richiamo alla riforma protestante: una riforma che l’Italia non ha mai conosciuto.
Il fascismo, per il fondatore di Energie Nove, non è altro che il linguaggio del male, l’arroganza di qualcuno e il servilismo di chi abdica alla sua dignità. Gobetti vi si oppone d’«istinto» e dichiara guerra ai tolleranti, a chi si fa risucchiare dalla contingenza, ma anche a chi studia oggi per opporsi (forse) in futuro. «Bisogna essere partigiani adesso!», tuona il «disperato sacerdote» del dovere. L’ignavia è complice delle dittature, qualunque esse siano.