il manifesto 12.2.16
Bergoglio torna in America latina. Ma stavolta solo “benedizioni
Messico. Non vedrà le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala
di Geraldina Colotti
Francesco
Bergoglio torna in America latina. A Luglio, la sua prima visita in
Ecuador, Bolivia e Paraguay ha lasciato una traccia profonda nel
continente. Attingendo ai meccanismi secolari della diplomazia vaticana,
il papa ha saputo parlare alle masse che sostengono la revolucion
ciudadana e il socialismo andino, i cui governi si scontrano con la
corporazione dei vescovi promossi da Wojtyla; e in Paraguay, dove il
vento bolivariano non è ancora arrivato, ha diretto il messaggio
pastorale contro la corruzione e i crimini dei “colletti bianchi”, che
affliggono tutta la regione.
In Bolivia, è stato accolto dai
movimenti popolari voluti da lui in Vaticano per discutere di terra,
casa, lavoro e ambiente, e ha ricevuto con qualche imbarazzo la croce a
forma di falce e martello che gli ha regalato Evo Morales: una scultura
ideata negli anni ’70 da Luis Espinal, un gesuita spagnolo a tinte
marxiste, massacrato dalla dittatura militare. Bergoglio si è raccolto
nel luogo in cui venne torturato e ucciso nel 1980. E, a Santa Cruz de
la Sierra, di fronte al primo presidente aymara della Bolivia, ha
chiesto “umilmente perdono per i molti e gravi peccati commessi contro i
popoli originari dell’America in nome di Dio”.
Difficile che nel
“povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati uniti”,
come diceva Porfirio Diaz, il primo papa latinoamericano della storia
possa andare oltre la litania di moniti e benedizioni. Certo, dal 12 al
17, visiterà alcuni dei luoghi più colpiti dalla violenza e dalla
povertà, dirà messa alla periferia della capitale, visiterà i detenuti,
parlerà ai migranti nella città di frontiera di Ciudad Juarez
(tristemente nota per il numero di donne ammazzate), si riunirà con gli
indigeni del Chiapas e con i clerici della città coloniale di Morelia:
ma non con le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala, che hanno
solo ottenuto un posto in prima fila durante la messa papale. Stringere
la mano a Enrique Pena Nieto ma non a loro, diventati il simbolo di quel
Messico schiacciato e desaparecido, serve a ricordare i termini della
questione quando “i poveri” cessano di essere gregge per farsi il
proprio cammino: parametri che restano, anche a voler immaginare “la
solitudine di papa Francesco” in un’istituzione che non riesce a
riformare. E qui, vale l’attualità di un paragone scomodo, il Venezuela
socialista di Nicolas Maduro. Bergoglio ha ricevuto Maduro in Vaticano, e
alcune fonti ecclesiastiche sostengono che “il papa bolivariano” sia
tutt’altro che ostile.
Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche
ultraconservatrici, capitanate dal sacro furore del cardinale Jorge
Urosa Savino e dell’arcivescovo Roberto Lückert hanno finora impedito la
visita di questo papa in Venezuela. Wojtyla, il papa guerriero che,
insieme a Reagan, affossò il socialismo sovietico, è atterrato due volte
a Caracas, nel 1985 e nel ’96. In un paese con l’inflazione alle stelle
quanto i costi pagati dai settori popolari durante le democrazie
modello Fmi, il papa polacco volle visitare il carcere Reten de Catia,
che ora non c’è più. Un carcere in mano alla delinquenza – uno stato
nello stato governato da reclusi abbandonati a se stessi — in cui non fu
possibile lasciarlo entrare. In compenso, si mise un gruppo di guardie a
salutarlo dalle finestre delle celle, sostituendole ai detenuti. Ma
ora, in un paese che sta cercando di far fronte alla crisi senza
tagliare la spesa sociale, dopo il ritorno delle destre in parlamento,
le gerarchie ecclesiastiche fanno sapere che il papa Francisco si
recherà in Venezuela solo dopo l’eventuale caduta dell’insopportabile
operaio del metro, Nicolas Maduro.
Anche il rapporto tra Bergoglio
e l’ex presidente argentina Cristina Kirchner non è stato dei più
facili all’inizio, ma in seguito un’intesa si è trovata in forza della
reciproca consonanza sulle 3 t “tierra, techo, trabajo” (terra, casa e
lavoro). E in questo senso pare che ora Bergoglio non apprezzi le
politiche liberticide imposte dall’imprenditore Mauricio Macri.
Tuttavia, , nonostante i festini “berlusconiani” che accompagnano i
ricevimenti di Macri, Bergoglio gli darà udienza in Vaticano il 27
febbraio.
Anche in Messico, figure come il vescovo Samuel Ruiz,
scomparso nel 2011, hanno dovuto e devono vedersela con le gerarchie
ecclesiastiche e con l’orientamento prevalente della Conferencia
dell’episcopado Mexicano (Cem): che comprende 170 vescovi, responsabili
di 93 diocesi da cui dipendono 12.500 sacerdoti di 6.750 parrocchie, in
maggioranza tradizionaliste e conservatrici per indirizzo vescovile.
Il
Messico, che Bergoglio visita per la prima volta da pontefice, è il
secondo al mondo per numero di cattolici, dopo il Brasile: 99 milioni su
una popolazione di 115 milioni, l’82,7% (e fino a pochi anni fa, il
95%). Un paese che, secondo cifre governative, ha il triste primato
delle sparizioni forzate: 27.000 dal 2006, ma – secondo organizzazioni
come Amnesty International – potrebbero essere almeno 12.000 in più
dall’elezione di Nieto, a dicembre del 2012. Nonostante il fallimento
delle politiche per la sicurezza a guida Usa, quest’anno il governo
messicano ha aumentato il bilancio per le spese militari. Nei suoi
saggi, l’avvocato Sergio Gonzalez Rodriguez, che ha seguito il caso dei
43 studenti scomparsi a Iguala, ricorda che, nel paese, vi sono più di
50 basi militari ad uso esclusivo delle forze Usa, oltre 25.000 agenti
dell’intelligence nordamericana che compiono operazioni armate, e che
almeno nel 15% delle sparizioni forzate sono coinvolti poliziotti e
militari.
E’ andata così anche nei fatti di Iguala, quando polizia
e narcotrafficanti hanno attaccato insieme gli autobus su cui
viaggiavano gli studenti normalistas, la notte tra il 26 e il 27
settembre del 2014. Quella notte – dice l’avvocato – sono intervenuti
anche agenti Usa, e i militari hanno riconosciuto che, fra i 43, c’era
un loro infiltrato nella Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Una vicenda
in cui lo stato del Guerrero appare l’emblema delle contraddizioni del
paese: povertà, disuguaglianza ed esclusione delle fasce più povere
della popolazione, in cui sopravvive – come nelle combattive Scuole
rurali — l’eredità della guerriglia e della resistenza contadina. Le
coltivazioni illegali di droga, spesso l’unica speranza di
sopravvivenza, godono dell’appoggio del governo messicano e
statunitense. E, come ha ricordato l’inchiesta della giornalista Anabel
Fernandez riportando documenti declassificati della Cia e della Dea sul
caso Iran-Contras, i grandi cartelli criminali sono stati costruiti
nell’ambito della “guerra al comunismo”. E così, dietro la facciata
della lotta al narcotraffico, la presenza delle forze militari serve a
reprimere l’opposizione sociale e a proteggere gli interessi delle
grandi multinazionali nelle zone di estrazione mineraria e negli snodi
di più alto traffico e profitto.
Una situazione che dopo la firma
dell’Accordo Transpacifico (Tpp) di cui il Messico è pedina centrale in
America latina, non farà che peggiorare. Per dare un segnale ai suoi
terminali esterni, Pena Nieto, che ha spalancato le porte alle grandi
imprese private, ha dato il benservito al suo ex protetto Emilio Lozoya,
direttore generale dell’impresa petrolifera di stato Pemex: “La
competitività prima di tutto”, ha detto Nieto, tirato per le orecchie
dal Fondo monetario internazionale che gli ha ordinato la “riforma
energetica”. Ma, a differenza dei lavoratori licenziati, dei contadini
poveri e dei migranti che finiscono nelle fosse comuni, Lozoya non avrà
certo a soffrirne: lo stipendio di un manager come lui si aggira intorno
al mezzo milione al mese. E il miliardario messicano Carlos Slim, uno
di quelli che ha organizzato la visita del papa, è il secondo uomo più
ricco del mondo.