il manifesto 12.2.16
La recessione globale
Economia. Arriva la tempesta l’Italia sprofonda. E non è questione di decimali.
di Alfonso Gianni
La
festa è già finita, anche se i gaudenti non raggiungevano neppure quel
fatidico uno per cento che separa i ricchi dal restante 99 della
popolazione mondiale. Dopo la chiusura in risalita di ieri, le borse di
tutto il mondo sono sprofondate. La peggiore performance è quella di
Milano. Il più 5,03% dell’altro ieri è stato polverizzato da un meno
5,6%. Perdono Parigi, Londra, Francoforte, mentre Shanghai, Tokyo e
Taipei sono state salvate dalla chiusura per festività. Ma Hong Kong ha
chiuso con meno 4 e Wall Street ha aperto in forte calo sulla scia
negativa delle borse europee. Una botta recessiva mondiale.
Milano
è stata la peggiore di tutte. Pesa la situazione disastrata del settore
bancario, in un quadro europeo che lo vede mal messo da tempo. L’indice
paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%,
rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di
febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con
rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008.
In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria
solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è
in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%,
Mediobanca del 9,96%.
Intanto il differenziale di rendimento, lo
spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con
rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra
il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello
scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la
prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di
parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro
che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.
Alla
base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee.
Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra
loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della
Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei
tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha
percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase
di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che
l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce,
segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle
primarie democratiche per Bernie Sanders.
Tutto diventa così più
incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso.
Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi
importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti
a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia”
come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando
l’oncia a quota 1.214 dollari.
L’ottovolante delle Borse non può
tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli
investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato
finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si
alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di
titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi — anche
quelli intendiamoci — ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni
sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia,
ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare
quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne
ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del
prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono
spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di
dollari in pochi mesi.
I fondi pensione e le assicurazioni a loro
volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%)
si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al
di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato
finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i
rendimenti.
Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane,
si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non
l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista
dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto
meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea
sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread
ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di
stato sul mercato e ne sono piene.
Se questi sono considerati più
rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso
diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui
tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese
diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di
investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E
non è questione di decimali.