il manifesto 11.2.16
Uno sguardo gramsciano su rivolte e repressione in Medio Oriente
Egitto. L’attenzione della dittatura sui sindacati, una bibliografia ragionata
di Giuseppe Acconcia
Molti
analisti e accademici hanno sottovalutato l’anima sociale delle rivolte
che hanno attraversato il Medio Oriente tra il 2011 e il 2015. Eppure
altri studiosi, come Giulio Regeni, hanno sottolineato quanto le
proteste fossero radicate nella trasformazione dei rapporti tra stato,
capitale e lavoro che hanno avuto luogo nei 35 anni precedenti al 2011 a
livello locale e globale.
Per esempio, Joel Beinin nel suo
Workers and thieves. I movimenti dei lavoratori e le rivolte popolari in
Tunisia ed Egitto (Stanford, p. 176, 2015) è lo studioso del Medio
Oriente che più ha puntato sul monitoraggio delle proteste dei
lavoratori.
Secondo il docente dell’Università di Stanford, i
sindacati egiziani hanno pagato la minore organizzazione rispetto
all’Unione generale del Lavoro (Ugtt) in Tunisia.
Già Gilbert
Achcar, docente dell’Università di Parigi, con The People Want.
Un’esplorazione radicale delle rivolte arabe (Saqi Books, 2013) aveva
anticipato che il movimento del 2011 era il risultato di una lunga
battaglia sociale al cui centro c’era un movimento popolare che parte
dal basso.
Eppure, secondo Achcar, che analizza nel dettaglio le
profonde disuguaglianze economiche all’origine del malcontento popolare,
nessuna delle forze politiche regionali si è dimostrata capace di
guidare una trasformazione rivoluzionaria.
Alexander e Bassiouny
in Pane, Libertà e Giustizia sociale. Operai e rivoluzione (Zed Books,
2014) capovolgono magistralmente la centralità mediatica delle piazze,
come Tahrir, e assicurano che le vere battaglie si sono svolte nelle
periferie a tal punto che gli scioperi «hanno creato una nuova geografia
urbana».
Tuttavia, gli autori sottolineano i limiti
dell’integrazione tra battaglie politiche e sociali: «I lavoratori non
hanno impiegato il loro potere collettivo e sociale per risolvere la
crisi politica della classe dirigente a loro favore». Gli autori
adottano un punto di vista più sfumato per giudicare l’azione politica
dei Fratelli musulmani, definendoli conservatori più che «reazionari»,
come è stata abituata a fare una parte della sinistra, da Samir Amin ad
Alaa al-Aswany, finendo per fare il gioco dei regimi autoritari al
potere. E così un politico neo-nasserista come Hamdin Sabbahi, candidato
alle presidenziali del 2012 in Egitto, ha finito per preferire
un’alleanza controproducente con gli uomini del vecchio regime piuttosto
che un accordo politico con gli islamisti moderati.
Sui rapporti
tra sinistra e Fratellanza musulmana, Patrizia Manduchi, docente
all’Università di Cagliari, in I movimenti giovanili nel mondo arabo
mediterraneo (Carocci, 2014) spiega in modo molto efficace le dinamiche
repressive, soprattutto da parte della polizia che spinsero, prima delle
rivolte del 2011, i Fratelli musulmani ad accordarsi con i Socialisti
rivoluzionari nell’Alleanza nazionale per il cambiamento e nei sindacati
universitari. Lo stesso avvenne nei movimenti contro la guerra in Iraq
del 2003 e nella campagna di solidarietà con l’Intifada palestinese
(2000).
Eppure ancora una volta, secondo Alexander e Bassiouny,
nel 2011 i generali hanno saputo sfruttare a loro vantaggio le
contraddizioni tra aspetti sociali e democratici del movimento. Gli
autori arrivano a stabilire che «gli scioperi che chiedevano forme più
democratiche di controllo dal basso delle istituzioni statali stavano
minacciando gli interessi del vecchio regime perché fondevano le domande
politiche e sociali con il potere sociale dei lavoratori».
Concorderebbe
su questo anche la docente dell’Istituto universitario europeo,
Donatella Della Porta che in Mobilizing for Democracy. Comparando il
1989 con il 2011 (Oxford University, 2014), confronta le transizioni
democratiche in Cecoslovacchia e nella Repubblica Democratica tedesca
del 1989 con le rivolte in Egitto e Tunisia del 2011. Le conclusioni
della studiosa sono che i movimenti sociali erano più sviluppati in Nord
Africa e Medio oriente che nell’Europa dell’Est. Sebbene nel primo caso
gli antagonisti fossero più repressi dalle autorità statali, c’era qui
una più forte organizzazione dei lavoratori rispetto al secondo caso.
E
così i militari egiziani hanno saputo sfruttare quest’anima sociale
delle rivolte a loro vantaggio costruendo uno pseudo neo-Nasserismo di
cui il presidente Abdel Fattah al-Sisi è l’emblema, capace di soddisfare
a parole le richieste sociali del popolo più dell’Islam politico.
Eppure,
come spiega benissimo Charles Tripp, docente di Scienza politica
all’Università di Londra (Soas), in The Power and the People. Percorsi
di resistenza in Medio oriente (Cambridge, 2013), dove racconta in modo
originale i 18 giorni di occupazione della piazza e i movimenti sociali,
la politica economica dei governi ad interim egiziani (2013–2015, con
tagli ai sussidi e grandi opere) niente ha a che fare con il socialismo e
il nasserismo, risponde solo alla necessità di al-Sisi di rappresentare
le sue azioni come create su misura dalle richieste della strada e dei
movimenti dei lavoratori.
Evidentemente i Fratelli musulmani non
sono stati capaci di integrare nelle loro politiche le richieste di
poveri e delle classi subalterne, mentre in altri contesti, per esempio
durante la rivoluzione iraniana del 1979, il clero sciita ha saputo
cooptare una parte dei movimenti di strada nel sistema assistenziale
post-rivoluzionario.