il manifesto 11.2.16
La vera «rivoluzione politica» di Bernie Sanders
Primarie
Usa. I precedenti del ’68 e del ’72 non sono confortanti ma Hillary
Clinton adesso sembra davvero il «vecchio establishment». E la domanda
diventa legittima: può davvero vincere la nomination un ebreo socialista
di settant'anni?
di Guido Moltedo
Le domande,
adesso, dopo l’esito delle primarie in New Hampshire, sono semplici. Ma
incredibilmente pertinenti. Bernie Sanders può arrivare fino in fondo?
Fino alla vittoria? Può essere lui il candidato democratico alla
presidenza degli Stati Uniti? Può essere lui, alla fine, il prossimo
presidente degli Stati Uniti? Può un signore nato nel 1941, che si
autodefinisce «socialdemocratico», talvolta «socialista», un ebreo di
Brooklyn che da giovane trascorse un periodo significativo in un kibbutz
comunista del nord d’Israele, può essere lui a raccogliere l’eredità
del primo presidente africano americano?
Già il porsi queste
domande dà il senso e la dimensione di quanto è accaduto nel piccolo
stato del New Hampshire, che alla convention democratica invia appena 23
delegati su quasi 5mila. Quindi un pugno di delegati.
Eppure le
primarie del New Hampshire contano perché «definiscono» la competizione,
e hanno contato di più questa volta, anche per il solo fatto che
autorizzano gli elettori delle prossime tornate elettorali a porsi
quelle «domande pertinenti», e dunque a valutare la corsa presidenziale e
la propria partecipazione a essa come votanti con una prospettiva
inedita e libera. La responsabilità di una scelta politica vera. Non tra
lo starsene a casa e il minore dei mali ma tra due opzioni reali. Non
un referendum su Hillary. Ma una competizione tra due contendenti veri.
Dopo
l’elezione di un figlio di un immigrato, di un nero, l’altra svolta
storica sarebbe stata rappresentata dalla nomination di una donna.
Clinton, nella sfida con Barack Obama, non aveva usato questa carta
preferendo puntare soprattutto sulla sua esperienza e affidabilità in
contrasto con l’inesperienza dell’avversario, e su quella del sostegno
dell’apparato del partito e dei mondi collegati in contrasto con
l’improvvisazione (apparente) dell’organizzazione obamiana.
Questa
volta Hillary ha decisamente messo in campo il suo essere donna, per
mobilitare un elettorato, quello femminile, che sempre più è decisivo,
non solo numericamente (ma anche perché le mogli e le fidanzate, dicono i
sondaggisti, spesso influenzano il voto di mariti e compagni).
Sanders
le sta sfilando anche quella carta, non solo perché l’elettorato
femminile giovane non si considera inquadrato nella logica femminista
anni 60/70 e valuta la propria libertà di scelta una conquista che non
può essere compressa in alcun ambito precostituito e imposto, fosse pure
quello della solidarietà femminile.
In Sanders molte giovani
progressiste vedono il «loro» candidato, e non in Hillary, anche se
donna. La considerano l’espressione dell’establishment, un establishment
peraltro molto maschile e maschilista, come il potere.
Diversamente
da Obama e diversamente da Hillary, Bernie non riflette la rivoluzione
demografica incarnata dal primo presidente nero, né una rivoluzione di
genere, come quella che potrebbe appunto significare Hillary Clinton.
Rappresenterebbe quella che egli giustamente definisce una «political
revolution», l’affermazione cioè, per la prima volta, di un candidato di
sinistra sostenuto e finanziato da una diffusa e generosa militanza in
barba ai poteri forti, agli apparati e alla potenza del loro denaro e
delle loro organizzazioni.
I precedenti storici non autorizzano a essere ottimisti.
Eugene
McCarthy e George McGovern, che pure erano meno radical di Sanders,
sono i due casi da tenere a mente. Il primo, nel 1968, vinse le primarie
in New Hampshire, su una piattaforma di contestazione della guerra in
Vietnam, e questo suo successo, unito ai sondaggi a lui favorevoli in
Wisconsin, indusse il presidente in carica Lyndon B. Johnson a ritirare
la sua candidatura per la rielezione.
Fu l’unico, anche se non
disprezzabile, risultato conseguito da McCarthy, mentre George McGovern,
nel 1972, anche lui candidato anti-war, ottenne la nomination
democratica ma perse molto male contro Nixon.
Quel pensiero pone in primo piano il tema del voto utile. Un tema che porta acqua al mulino di Clinton.
Questa
volta però non c’è sullo sfondo la guerra del Vietnam, non c’è il mondo
bipolare. Se vince un socialista non è un regalo a Mosca. C’è una
realtà fluida, più dinamica, più orizzontale. Anche perché alimentata
dalla diffusione pervasiva delle nuove tecnologie.
Paradossalmente
Hillary può essere considerata lei, come il «prodotto» di un’epoca
passata, mentre Sanders, che pure è più anziano, è visto in maggiore
sintonia con le sfide della realtà di oggi.
Come dice in un tweet
Nate Silver, «le risposte di Clinton invocano costantemente gli ultimi
cinquant’anni di storia americana, mentre Sanders è tutto sul qui e
ora».