il manifesto 10.2.16
Sanders stravince in New Hampshire: Sanità e istruzione per tutti
Sanders
vince le primarie democratiche con il 60%. Valanga di voti dai giovani
e, a sorpresa, tra le donne. La sua piattaforma politica
"socialdemocratica" su welfare, giustizia, anti-razzismo, ambiente,
sanità e istruzione fa di lui il candidato più di sinistra dai tempi di
Debs nel 1912 e del socialista Upton Sinclair nel 1934.
di Luca Celada
LOS
ANGELES In una notte storica un socialista ebreo ha vinto le primarie
del New Hampshire: nel granite state Bernie Sanders ha messo segno una
vittoria decisiva contro Hillary Clinton, battendo la “favorita” per la
nomination democratica per 60% a 39%. Pur se non imprevista in questo
stato confinante col Vermont del senatore “socialdemocratico”, è stata
una sonora batosta per Hillary Clinton e un risultato che dopo il
“pareggio” in Iowa ha legittimato ulteriormente Bernie Sanders come
effettivo pretendente alla nomination. Un esito prefigurato quasi subito
dagli exit poll secondo cui l’argomento più caro agli elettori
democratici del New Hampshire è stata proprio l’ineguaglianza economica
su cui da mesi batte Sanders.
“Dobbiamo trovare il coraggio di
rifiutare lo status quo” ha detto Sanders nel suo discorso di vittoria,
“le corporation e i ricchi di questo paese cominceranno a pagare la loro
giusta parte di tasse”.
Il boato della folla che lo ha acclamato
nel suo quartier generale di Concord conferma la Bernie revolution in
gran parte come una reazione all’endemica speculazione finanziaria che
otto anni fa ha precipitato l’America e poi il mondo in una catastrofica
crisi economica.
“Gli Americani si sono accollati il bailout di
Wall Street – ora tocca a Wall Street sollevare la classe media” ha
detto ancora il candidato alla folla giubilante a cui ha ripetuto la
propria piattaforma politica: un programma di welfare che comprende
sanità ed università gratuite, riforme su giustizia, razzismo e ambiente
che fanno di lui il candidato più di sinistra dai tempi delle campagne
politiche del presidente del sindacato internazionalista IWW Eugene Debs
nel 1912, e il socialista Upton Sinclair nel 1934.
“Quando
arriveremo alla casa bianca”, ha detto ancora Sanders, “big pharma avrà
finito di salassare i cittadini”. E come al solito ogni riferimento
alle case farnaceutiche o ai grandi assicuratori e agli altri grandi
intererssi economici da parte di questo candidato che ha raccolto
milioni in finanziamenti da privati cittadini (contributo medio: $27), è
stato un implicito riferimento ai forzieri della sua avversaria,
rimpinguati invece proprio da grandi benefattori.
Per Hillary
Clinton i rapporti molto amichevoli con l’establishment finanziario si
sono ancora una volta rivelati un tallone d’Achille che fra gli elettori
di questo stato, noti bastian contrari, si sono rivelati fatali.
Nel
complimentarsi con Sanders, Hillary ha tentato di archiviare la
sconfitta come un prevedibile incidente di percorso nel lungo iter
elettorale che si ora si sposta in Nevada e South Carolina. Qui
dovrebbero pesare a suo favore i primi settori consistenti di elettori
neri e ispanici. A loro Clinton conta di porporre le “soluzioni concrete
a problemi concreti” non contenute a sua dire nella piattaforma
“idealista” di Sanders.
Ma i risultati di ieri hanno evidenziato
debolezze strutturali che devono preoccupare non poco gli strateghi
della ex first lady.
Innazitutto i giovani che sono la base più
entusiasta di Sanders e i cui voti ancora una volta hanno favorito
preponderantemente il senatore. “Anche se non mi sostenete”, è stata
costretta ad ammettere una castigata Hillary, “io sostengo voi”.
Ancora più soprendente il dato che a Sanders ha assegnato un vantaggio dell’11% fra le donne (il 55% dell’elettorato).
Per
puntellare la base femminile, Clinton negli ultimi giorni aveva
arruolato figure importanti come l’ex segretario di stato Madeleine
Albright e Gloria Steinem. A un comizio nel fine settimana, la Albright
ha avvertito che “esiste un apposito girone dell’inferno riservato alle
elettrici che non sostengono le candidate donne”.
Steinem, decana
del femminismo americano, è giunta a denunciare le giovani sostenitrici
di Sanders che “lo fanno per seguire i propri ragazzi” ed è stata
successivamente costretta a chiedere scusa per una non caratteristica
caduta di stile. Episodi che hanno evidenziato l’ambivalenza di quello
che sulla carta doveva costituire uno zoccolo duro clintoniano.
Una spaccatura ideologico-generazionale che potrebbe presagire una insospettata vulnerabilità proprio nell’elettorato femminile.
In campo repubblicano invece Donald Trump è riuscito ad imporsi nettamente sui sei rivali registrando il 35% dei consensi.
Poco
dopo la chiusura dei seggi, quando le proiezioni sono diventate
ineluttabili, il miliardario dalla carnagione paonazza e la chioma
ossigenata è salito sul palco sulle note di Revolution (con buona pace
di John Lennon che presumibilmente si è rivoltato nella tomba), accolto
dall’inevitabile coro di “U-S-A, U-S-A”.
Ai suoi tifosi Trump ha
promesso con caratteristica dialettica che “ci occuperemo di tutto e
sarà meraviglioso” riassumendo il suo progetto di eccezionalismo
populista a base di “farla pagare alla Cina, al Giappone e al Messico
che ci tolgono tutti i soldi”.
Oltre agli “splendidi” muri di
confine e all’esercito “così potente che nessuno oserà mettersi contro
di noi”, il copione ha offerto la consueta ricetta politica basata
sulle “superiori doti di negoziatore” e, nel crescendo iperbolico, la
promessa di diventare il “migliore jobs president mai creato da dio!”.
La vera storia tuttavia si è sviluppata alle sue spalle, dove è infuriata la guerra di posizione fra gli altri pretendenti.
John
Kasich, il centrista governatore dell’Ohio che dopo l’Iowa alcuni
davano per spacciato, ha raccolto il 16% dei voti piazzandosi secondo
mentre Jeb Bush, il crociato integralista Ted Cruz e Marco Rubio si sono
divisi il resto dei voti utili ottenendo ciascuno l’11%.
Carly
Fiorina, Ben Carson e Chris Christie hanno chiuso la classifica con 7%,
4% e 2% rispettivamente – risultati che per loro dovrebbero
rappresentare l’anticamera del ritiro.
Ma se pure il gruppo si
assottigliasse, i risultati non hanno prodotto l’attesa indicazione su
un candidato moderato che possa tenere testa all’”insorgente” Trump.
Il
grande sconfitto di ieri è senza dubbio Marco Rubio, che fino
all’antivigilia sembrava il delfino predestinato dell’establishment. Ma
una disastrosa performance nell’ultimo dibattito è costata al
quarantaquattrenne senatore della Florida un precipitoso collasso nei
consensi che ora riapre la partita fra lui, Bush e Kasich per diventare
il plausibile anti-Trump auspicato dai dirigenti repubblicani per
arginare le imprevedibili intemperanze populiste che molti temono
potrebbero costare al partito una sconfitta a novembre.