il manifesto 10.2.16
Al Cairo, sul corpo del reato
In contesti segnati da violenza, fosse comuni e sparizioni, un cadavere martoriato fatto ritrovare reca sempre un messaggio
Quello di Giulio Regeni svela cosa si annida sotto le narrazioni del potere in uno stato di polizia
di Marina Calculli, Francesco Strazzari
Chiunque
abbia lavorato in contesti segnati da violenza, sparizioni e fosse
comuni, sa che i corpi sono firme, e un corpo martoriato fatto ritrovare
porta sempre un messaggio. Non sappiamo con certezza per chi, ma
sappiamo che lo strazio del corpo di Giulio Regeni espone a corto
circuito tre logiche che, nel loro legame intrinseco, ancora una volta
svelano cosa si annida sotto la costruzione delle narrazioni del potere e
del loro agire.
La prima logica riguarda la natura arbitraria e
imprevedibile delle dittature, come quella del regime di Abel Fattah
al-Sisi: la restituzione del corpo di Giulio ne illumina il fondo
oscuro, criminale e violento, dopo un lungo periodo in cui chi ha
provato a rompere il silenzio è stato ignorato e additato quale
detrattore della presunta «transizione politica» guidata dai nostri
alleati, rappresentati come l’avamposto nel combattimento contro la
minaccia jihadista.
La svolta bonapartista della rivoluzione
cominciata il 25 gennaio del 2011 e incarnata nel potere del generale
al-Sisi ha trasformato l’Egitto in uno stato di polizia sempre più
impresentabile, fondato sulla paura e sul ricatto: un regime che tramite
la brutalità delle sue mukhabarat (servizi di intelligence) getta fumo
sulla debolezza di un’economia al collasso (estremamente dipendente da
investimenti e aiuti esteri) e di una società sempre più consapevolmente
disillusa, seppur frammentata. La lotta al terrorismo e all’estremismo
islamista in Egitto è un dispositivo principalmente volto a soffocare la
Fratellanza Musulmana, storico rivale politico dei militari oggi al
potere. La morsa del potere però aggancia chiunque si opponga: i
desaparecidos, i baltagiya (gli squadroni della morte) agitano un
repertorio che credevamo confinato agli angoli più tetri della storia
latinoamericana.
In questo contesto «terrorismo» è semplicemente
sinonimo di minaccia per la stabilità del potere. Le carceri pullulano
di intellettuali e attivisti dei quali non si sa per quanto ancora si
potrà tenere traccia, mentre le morti in custodia si contano a decine.
Ricordavamo in un editoriale su questo giornale lo scorso 29 novembre il
nesso intimo tra autoritarismo e jihadismo: il potere manovra le trame
di una minaccia costruita, o comunque ingigantita ad arte, per
alimentare se stesso.
Il corpo di Giulio, tuttavia, getta luce
sulle molte crepe che attraversano la patina dell’ordine politico
repressivo. La nevrosi alfieriana della “tirannide” in difficoltà si
mostra pateticamente nelle versioni contraddittorie scagliate
maldestramente in pubblico: con tutta probabilità siamo di fronte a una
catena di comando nervosa e segnata da rivalità interne, coesa in un
patto di impunità, sensibile ad impulsi dall’alto, pronta a gridare al
complotto quando la propria firma compare su un corpo fra i tanti,
recando il segno orrendo della propria firma.
La seconda logica
che in queste ore scricchiola, rivelandosi illusoria, è l’idea di poter
condurre nel vicinato mediterraneo una politica estera improntata a una
sorta di “cinismo di controllo”, presidio strategico dell’”interesse
nazionale”, senza che questo tracimi a cascata in contraddizioni sempre
più insopportabili, fino a capovolgerne il principio di legittimità. In
altri termini: sostenere leader autoritari a patto che venga garantita
“la stabilità” non è più sostenibile. Né l’Egitto né la Turchia, dove il
(de)corso degli eventi recenti vede un crescente attacco alle più
evidenti libertà politiche e di parola – oltre allo spregio dei più
elementari obblighi umanitari – possono costituire cardini di stabilità.
Partnership commerciali ed energetiche strategiche si risolvono in un
castello di carte quando sono maneggiate da tendenze dispotiche
ossessionate dalla repressione interna: con il rischio, peraltro, che
quegli stessi investimenti siano inghiottiti dall’insicurezza prodotta
dai regimi stessi (Libia docet). Abbiamo preferito non chiedere troppo
dell’attentato al consolato italiano al Cairo dello scorso 11 luglio;
ora ci restituiscono il corpo di un giovane ricercatore vigliaccamente
seviziato.
Il vergognoso comunicato della presidenza egiziana
all’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio, mescolando
“costernazione” e partite commerciali, ha messo in scena la materialità
di un’alleanza basata sul ricatto della sicurezza e sullo scambio tra
affari e connivenza. Non esistono principi di lealtà o punti terzi:
verità e giustizia saranno proporzionali al grado di determinazione con
cui le autorità italiane le perseguiranno.
C’è infine una terza
logica che si incrina amaramente assieme al corpo spezzato di Giulio: né
la sua nazionalità né l’affiliazione al mondo accademico «Ox-bridge»
sono stati sufficienti a proteggerne la vita: una vita – non si può non
sottolinearlo – immersa in un lavoro di etnografia del cambiamento che
anche su questo giornale si stava impegnando a comunicare, informandoci e
interrogandoci su soggetti che resistono, lontani dalla superficialità
di media mainstream e ortodossia accademica. La retorica provinciale
della “meglio gioventù” bypassa – forse anche inconsciamente – una
riflessione che invece è doverosa sulle condizioni in cui molti studiosi
fanno ricerca.
È più che mai fondamentale che il dibattito
pubblico investa le istituzioni del compito di promuovere e valorizzare
il lavoro di ricerca sul campo, la cui principale prerogativa è quella
colmare (clamorosi) vuoti di conoscenza e spessore analitico. Si tratta
di un tipo di conoscenza cruciale in una fase di rapida trasformazione
dei contesti locali e di equilibri internazionali il cui centro
propulsore è proprio il Medio Oriente, e senza la quale ogni richiamo
alla knowledge society si riduce a oziosa retorica. Chi vive nel mondo
della ricerca vede ogni giorno avanzare la pretesa scientificità di
modellizzazioni astratte, letture del politico costruite su dati
commissionati e reperiti a distanza, disgiunte dalla comprensione del
potere mediata attraverso i significati attribuiti dai protagonisti
stessi. Proprio ora un numero crescente di riviste scientifiche sta
adottando nuove regole che – in nome dell’«accesso ai dati e alla
trasparenza della ricerca» (DART) – operano una riduzione scientista che
sacrifica la sensibilità etnografica per il terreno, di fatto rendendo
impossibile lavorare sul campo in contesti sensibili. L’etnografia sul
campo è cruciale per produrre conoscenza sull’incerto, il mutevole, il
represso.
Si ricordi che Giulio stesso si curava di anonimizzare
il proprio nome su questo giornale: non è difficile immaginare se avesse
potuto maneggiare con disinvoltura a meri fini di certificazione i dati
dei sindacalisti e dei venditori informali, dei tassisti con cui
parlava nell’incombere della repressione di regime. Per i macellai che
si sono accaniti su di lui, un ricercatore è una spia.
E qui il
vero attore da chiamare in causa è proprio la politica, che mentre si
affanna a proteggere «valori» e «civiltà» dovrebbe impegnarsi a
proteggere non tanto e non solo i connazionali all’estero, ma le
condizioni stesse in cui è possibile continuare a fare ricerca ed
esigere un dibattito su aspetti strategici per le nostre «relazioni di
vicinato»: la neutralità nella produzione del sapere è un’illusione, che
evapora assieme al confine tra la sicurezza e l’insicurezza
dell’individuo che lo persegue.