il Fatto 2.2.16
Libia, pensate un attimo prima di attaccare
di Arturo Viarvelli
Il
 presupposto fondamentale di ogni intervento armato è che sia chiaro 
l’obiettivo politico. La questione non è mantenere la leadership su 
un’eventuale azione in Libia, come sostenuto recentemente da Vittorio 
Emanuele Parsi su Panorama, ma – per citare Spike Lee – "fare la cosa 
giusta”. L’intervento del 2011 e la gestione della fase post-conflict 
non lo sono stati. L’Italia si caratterizzò allora per una rincorsa 
duplice, politicamente debole, all’evoluzione incontrollabile degli 
eventi in Libia da una parte, e alle mosse dei propri principali partner
 dall’altra. Data la prossimità della Libia e i nostri interessi, 
l’Italia non può permettersi nuovi errori.
FINORA era stato 
considerato requisito necessario, per una azione militare straniera in 
Libia, l'accordo tra fazioni libiche. Ma le recenti indiscrezioni 
sembrano fare pensare che l'Occidente stia già cambiando strategia e 
possa avviare i bombardamenti contro l'Isis anche senza una formale 
richiesta da parte di un legittimo governo libico. La nascita di un 
governo unitario è una possibilità che ancora non si può escludere 
ma, considerato l'andamento delle trattative fino ad oggi, certamente 
non si può essere ottimisti. I nodi che hanno impedito il successo del 
negoziato finora sono tuttora irrisolti, in particolare il ruolo che 
avrà il generale Haftar nel futuro della Libia e l'ostilità 
all'accordo di buona parte delle milizie e delle forze politiche della 
Tripolitania che fanno riferimento al presidente islamista del 
Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahmein. Un intervento armato in un 
Paese che faticosamente cerca di ricomporre il quadro politico possa 
definitivamente compromettere le residue speranze di pacificazione. Un 
intervento esterno faciliterebbe il compattamento dei gruppi islamisti 
attorno allo Stato Islamico.
Lo Stato Islamico in Libia è 
certamente una minaccia rilevante ma sinora contenuta. Il numero di 
combattenti di Isis è spesso esagerato dai media e dai libici che 
combattono contro gli islamisti. Fonti affidabili reputano che ci siano 
tra 2.700 e 3.500 miliziani in Libia. Circa 1.500-2.000 intorno a Sirte.
 Anche le indiscrezioni sui rinforzi da Boko Haram sono da considerare 
con cautela. Il contesto dell’ascesa di Isis a Sirte è simile a quello 
che ha favorito l’Is in Iraq, l’esclusione di parte della popolazione da
 un processo di partecipazione politica. Non appare un caso che Sirte 
sia la città natale di Muammar Gheddafi e territorio di presenza della 
tribù Qaddafa. Dalla sua deposizione, la tribù, emarginata dal governo
 di Tripoli, è stata anche accusata da altre milizie di connivenza con 
il passato regime e, talvolta, duramente colpita per questo motivo. 
Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime, hanno 
quindi sposato la causa Isis più per motivazioni politiche che 
ideologiche. Per questo il ritorno a un processo politico inclusivo (e 
non vendicativo) appare fondamentale.
La palese mancanza di 
chiarezza sugli obiettivi dell'eventuale mission (contenimento 
dell'Isis, state-building, protezione della capitale, delle 
infrastrutture o che altro?), senza avere chiaro verso quale fine 
politico si tende, è un grave errore e conduce a missioni a tempo 
indeterminato la cui efficacia politica viene progressivamente erosa. E 
se anche in Libia l'obiettivo fosse estirpare lo Stato Islamico non è 
con i soli bombardamenti mirati che si potrà ottenere il risultato, 
come le recenti incursioni in Siria/Iraq dimostrano. Dovranno essere i 
libici a fare fronte comune.
Non serve colpire l'Isis unicamente 
in campo militare. Non serve rivendicare sterili leadership su nuovi 
interventi. Serve far cessare lo stato di anarchia in cui prospera 
l'Isis. Serve fare la cosa giusta.
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