martedì 23 febbraio 2016

Heidegger sostenne che l’animale è povero di mondo, e che «solo l’uomo ha un mondo»
Repubblica 23.2.16
Ma il rischio è quello di isolarsi dal mondo
Da anni i colossi hi-tech scommettono sulla realtà virtuale, con alterne fortune Ma ora, dal World Congress di Barcellona, Mark Zuckerberg lancia la sua sfida: trasformarla nella più grande piattaforma social del globo. Anche grazie alla potenza delle reti 5G, attive dal 2020
di Maurizio Ferraris

Martin Heidegger, filosofo dell’angoscia e dell’essere per la morte, non ebbe fama di grande ottimista, eppure lo fu, quando sostenne che l’animale è povero di mondo, e che «solo l’uomo ha un mondo». Sospendendo il giudizio sull’animale, di cui sia noi sia Heidegger sappiamo molto poco, resta il fatto che è una esperienza comune sentirci poveri di mondo, e che la constatazione del fatto che altri nostri simili siano ancora più poveri non basta a consolarci.
È da questa strutturale povertà di mondo che ci caratterizza che hanno origine le massime creazioni della cultura: romanzi, dipinti, sinfonie. Che cosa sono, dopotutto, quegli artefatti, se non dei tentativi per arredare un mondo che ci appare disadorno o scarsamente popolato, e per di più fruibile in un tempo che, per quanto sia mediamente più lungo oggi che nel passato, è comunque troppo breve?
Quel potenziamento dello spazio e del tempo che si chiama “cultura” è dunque l’origine del virtuale. Il nostro antenato che dipingeva delle scene di caccia sulle pareti di una caverna stava producendo della realtà virtuale, proprio come la produceva Omero (o chi per lui) quando raccontava la caduta di Troia abbellendola con gesta eroiche e interventi soprannaturali.
Mark Zuckerberg che cammina, unico a contatto con la realtà reale mentre chi gli sta attorno indossa la maschera della realtà virtuale sa meglio di chiunque altro quanto povero di mondo sia l’uomo, ma ci segnala un punto importante. Da una parte, ricorda il filosofo di Platone, l’unico che sta fuori della caverna mentre gli altri, incatenati, guardano simulacri proiettati sul fondo della caverna, ossia appunto una realtà virtuale.
Dall’altra, però, si trova molto meglio di Platone, o di Omero, per più di un motivo. Primo, gli incatenati hanno volontariamente indossato la maschera, dunque non ha nemmeno bisogno di incatenarli. Secondo, diversamente da Omero, non è lui a dover produrre i contenuti dello spettacolo: sono gli incatenati, anzi, gli scatenati, che lo producono scambiandosi le proprie gesta su Facebook.
Terzo, e soprattutto, lui la maschera non ce l’ha perché non se l’è messa, e non se l’è messa perché non ne ha bisogno. Perché mai un miliardario giovanissimo e potentissimo, una specie di Alessandro Magno contemporaneo, dovrebbe ricorrere a questo espediente da poveri di mondo? Lui un mondo ce l’ha, eccome, e ce lo ha realissimo; il virtuale lo lascia agli altri, cioè alla stragrande maggioranza di umanità il cui mondo non è abbastanza ricco.
Una volta di più, la tecnologia si presenta come una rivelazione e non come una alienazione. Coloro che indossano la maschera lo fanno per eccellenti motivi, e non perché siano pervertiti dalla tecnica. Semplicemente — e lo sospettavamo un po’ tutti — la loro e la nostra vita non è abbastanza ricca. E ovviamente quanto più povera è la vita tanto più preziosa è la protesi: un carcerato con Oculus è meno carcerato di uno senza Oculus. La sola speranza vagamente populista è che, come nella migliore tradizione delle telenovelas, anche il ricco pianga, e che talvolta, non visto, anche Zuckerberg indossi la maschera.