Corriere Salute 28.2.16
I vantaggi Non è mai troppo tardi per
impararne un’altra 4-5 anni Di tanto, in base agli studi, l’essere
bilingui allontana la comparsa di demenza senile e in caso di ictus
raddoppia la probabilità di un pieno recupero della funzionalità
cerebrale
di E. M.
Parlare due o più lingue
altera l’architettura del cervello in maniera vantaggiosa: stando agli
studi, essere bilingui allontana in media di 4-5 anni la comparsa di
demenza senile e, in caso di ictus, raddoppia la probabilità di un pieno
recupero della funzionalità cerebrale.
Per di più, padroneggiare
due idiomi aumenta la quantità di sostanza bianca e grigia nel cervello,
come ha spiegato in una recente revisione delle ricerche sull’argomento
il neuropsicologo Jubin Abutalebi, direttore della rivista
Bilingualism: language and cognition . «Chi parla più di una lingua
quando si esprime deve usarne una e “inibire” le altre — dice l’esperto—
. Per farlo il cervello sviluppa di più le aree deputate al controllo
esecutivo (z one della corteccia prefrontale responsabili dei processi
di pianificazione e decisione delle priorità, ndr ) e questo sembra
aumentare la riserva neurale, ovvero accrescere la quantità di materia
grigia e bianca: grazie a un maggior numero di neuroni, quindi, il
cervello dei bilingue va incontro più lentamente all’atrofia legata
all’età».
«Inoltre — prosegue Abutalebi — l’incremento delle
capacità di controllo esecutivo regala anche una più ampia riserva
cognitiva: aumentano cioè le connessioni fra aree cerebrali attraverso
la cosiddetta compensazione neuronale , che nella pratica consente a un
anziano bilingue, con numerose lesioni visibili a una Tac, di avere
performance cognitive identiche a quelle di chi ha molti meno danni
cerebrali evidenti correlati all’età. Grazie a questa riserva neurale e
cognitiva, quindi, il cervello bilingue riesce a compensare meglio i
deficit da invecchiamento: un effetto molto potente, verificato da ampi
studi in tutto il mondo».
Difficile perciò che il ritardo
nell’andare incontro alla demenza verificato nelle ricerche sia solo il
frutto di un caso, tanto che Abutalebi sottolinea come finanziare corsi
di lingua per anziani potrebbe essere più utile di altri interventi per
ridurre i deficit cognitivi negli over 65. I benefici del bilinguismo si
vedono soprattutto con l’andare degli anni e sono molto evidenti in chi
continua a servirsi d’abitudine di entrambe le lingue apprese, magari
guardando film o leggendo libri non tradotti: lo spessore della materia
grigia, infatti, è correlato all’uso effettivo di più di un idioma e
dopo decenni di esposizione a due lingue non si notano più differenze
marcate fra chi ha imparato una seconda lingua da piccolo o chi lo ha
fatto più tardi ma l’ha parlata abitualmente per venti o trent’anni.
Esiste
però una “finestra critica” per l’apprendimento, come spiega Abutalebi:
«Imparare un idioma da bambini significa poter arrivare alla competenza
linguistica di un madrelingua. Chi studia dopo può riuscirci, ma è più
difficile: prima si comincia meglio è, anche se bisogna evitare gli
eccessi. Nei piccolissimi è però bene presentare inizialmente due sole
lingue, perché se si introduce una terza lingua prima dei 3-4 anni le
strutture deputate al controllo esecutivo sono troppo immature e si
rischia di ritardare il momento in cui si arriva alla padronanza
linguistica. Occorre dunque aspettare fino a quando il bimbo supera il
problema dello “switching”, lo scambio continuo fra le due lingue; non a
caso negli anziani bilingui il primo segno di difficoltà cognitive è
proprio il ritorno allo switching, dovuto all’atrofia non più compensata
delle aree prefrontali».
Chi non ha ancora imparato una seconda
lingua ed è già alle soglie della pensione (o oltre) non deve però
scoraggiarsi: «Studiare lingue è una “terapia” per la mente anche a 70
anni. Non importa la performance, conta stimolare il cervello», conclude
Abutalebi.
E. M.